Nuovi reati: rivolta in carcere ex 415bis, vietata la “resistenza anche passiva”

Lo sciopero della fame iniziato da almeno 3 detenuti è ipotesi di reato

La vera notizia di questi giorni, mentre si discute di deputati-pistoleri, è che il nostro codice penale saluta l’arrivo di un nuovo reato tipico: il 415 bis, ovvero rivolta in istituto penitenziario. Un reato inutile poiché ridondante;  le singole ipotesi di atti riconducibili a reato già esistono nel codice, ma il 415 bis crea una nuova fattispecie: la “resistenza anche passiva”. Gli atti di disobbedienza pacifica, come rifiutare il carrello del cibo e iniziare lo sciopero della fame, compiuti da almeno tre detenuti, da oggi sono ipotesi di reato. Un reato che non stonerebbe affatto nell’Ungheria di Viktor Orbán.

Paolo Borgna, su Avvenire (4 gennaio), annota che il nuovo reato descrive “una filosofia pervasiva e che ha messo radici sempre più profonde a prescindere dalle maggioranze al governo del Paese”. Il carcere concepito come vendetta e unica vera sanzione, alla faccia dei precetti contenuti nell’articolo 27 della Costituzione. Precetti, in verità, bisognosi di una rilettura aggiornata, rinfrescata semmai con le nuove concezioni dell’esecuzione di pena. Una nuova interpretazione certamente non punitiva-vendicativa.

Bene, anzi male; c’è un altro aspetto che ancora non è stato notato. Un aspetto molto interessante. E mi riferisco a tutte quelle associazioni che promuovono iniziative nonviolente in carcere. Per queste, adesso è pronto il 414 del codice penale: istigazione a delinquere.

Tornando al profilo del nuovo reato introdotto dal 415 bis, l’analisi di Mirko Manna della Fp Cgil, un sindacato polizia penitenziaria., è molto precisa. Sul Manifesto (5 gennaio, articolo di Eleonora Martini) dichiara che non c’è stato alcun bisogno di cancellare il reato di tortura, come promesso in campagna elettorale: è bastato infatti creare il reato di “rivolta in carcere” per “far sentire protetti gli agenti penitenziari meno capaci di gestire la rabbia. E intoccabili i veri torturatori, quelli che non accettano le telecamere in ogni angolo del carcere e le body-cam durante il servizio”.

Ho visitato molti istituti penitenziari nella mia vita di militante politico e la prima cosa che chiedevo era lo stato di salute delle telecamere interne. Il più delle volte, infatti, erano rotte e non funzionanti e costava troppo ripararle. L’articolo del Manifesto descrive la storia d’amore tra il sottosegretario Delmastro e il corpo di polizia penitenziaria. Ma chi protegge oggi i detenuti? I loro diritti e la loro volontà di autodeterminazione in un carcere sempre più vendicativo?

Anche perché non è più significante visitare un carcere e descrivere la fatiscenza strutturale dell’istituto. Per alcuni è diventato un facile trucco per evitare di parlare dei veri problemi. Una situazione stra-conosciuta e ormai regolare, utile solo a riempire i quotidiani di articoli “buonisti” e “natalizi” sul “degrado”, le cimici, i muri imbrattati da macchie enormi di umidità, i piccioni che defecano ovunque, le malattie anche quelle mentali, i materassi infiltrati, la sporcizia, il cibo schifoso, i prezzi allucinanti del sopravvitto, le risorse sanitarie interne. Eccetera. Il determinismo della dignità. Più se ne parla, e più si è sicuri che niente cambierà.

Il vero dramma non è il carcere schifoso, ma la difficoltà a tutelare, e configurare, i diritti delle persone detenute. Diritti mobili, dai confini incerti. L’unica via per cambiare il carcere è quella giurisdizionale. Perché non è tanto in gioco lo stato diritto, ma il diritto dello stato ad amministrare la giustizia, anche in fase di esecuzione di pena, sulla base di leggi uguali per tutti, compresi gli agenti penitenziari e i loro diritti e doveri. Verrebbe da dire: liberali di tutto il mondo, unitevi. Ma è meglio non infierire…

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  1. Ciò acuisce la terribile sensazione che fra le nuove norme ed il dettato costituzionale si stia costruendo una sorta di “comma 22” (questo non a caso made in USA) a danno dei cittadini: cioè colui che pur nel subire una condanna, pretenda il rispetto della Carta, delinque ulteriormente. In definitiva una pietanza già servita ben calda per chiunque voglia imprimere una ulteriore svolta autoritaria e repressiva alla gestione politica del Paese.

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