Notturno: lo choc estetico di D’annunzio nel camposanto pisano

Firenze – Nel Notturno la narrazione intimistica considerata fra le più moderne di D’Annunzio, in quanto lontana dall’estetismo e dal vitalismo delle sue opere più famose e che è ritenuta un capolavoro della prosa lirica, il poeta rievoca un giorno di marzo, quando  si trovava a Pisa insieme ad Eleonora Duse ed erano stati sorpresi da un temporale.

“Mi ricordo di un acquazzone di marzo a Pisa. Eravamo su la Piazza del Duomo. Ci rifugiammo sotto l’architrave della porta maggiore, scrollando le gocciole. Là c’indugiammo ad aspettare che spiovesse. Imbres effugio, diceva nella porta l’emblema parlante”.

In questo racconto, scritto nel 1918 (quando il poeta era temporaneamente cieco per una ferita di guerra)  si rievoca un episodio di  molti anni prima,  tra il 1898 e il 1905  quando D’Annunzio e la Duse vissero spesso a Marina a Bocca d’Arno.

Non a caso, risale al 1902  La pioggia nel pineto che ha un particolare parallelismo con questo racconto. Infatti, la celebre poesia, u scritta dopo che  il poeta e la Duse erano stati sorpresi da un temporale nella pineta di Marina di Pietrasanta.  I due  erano  soli nella pineta, in un’atmosfera surreale  con la natura che li avvolgeva in una sorta di simbiosi, lontano da ogni segno della moderna civiltà.

Nel racconto del Notturno, invece, trovano rifugio sulla porta principale del Duomo. Anche qui si  verifica una sorta di simbiosi con gli splendidi  ed  enigmatici bassorilievi

Premuti contro il bronzo dei battenti, incominciammo a possederlo, a mescolarci con esso. L’umidità pareva accrescere il pregio della materia. Come fanciulli curiosi, mettevamo le dita nel fogliame di metallo, palpavamo le piccole teste inghirlandate che s’affacciavano di tra le olive e la fronda. Sopra di noi parlavano i simboli: Fons signatus, Hortus conclusus”.

Le frasi in latino incise sulla porta come  didascalie di simboli mariani  assumono significati  reconditi  che sottolineano  il temporaneo distacco dal  mondo come in una sorta di isola deserta  hortus conclusus, appunto.  .

E i bassorilievi in bronzo evocano l’immersione nella natura :  “Attoniti, tra il fogliame andavamo scoprendo le lucertole le lumache le rane gli uccelli i frutti, senza numero. Avevamo nelle dita il piacere dell’artista che aveva modellate le forme, la sua sapienza, il suo capriccio”.

Poi la pioggia si attenua  e lo scroscio diviene una sorta di eco lontana  ( come l’armonia che fa l’eco interna del Battistero).

Allora scesero sul prato. E  il poeta scrive  .” Imbruniva. Eravamo soli”.  Isolati dal mondo in quell’angolo magico. Un’esperienza che nei miei anni pisani ho avuto spesso occasione di provare. Nello spazio marmoreo fra il Duomo e  il Camposanto scompaiono per un momento le folle di turisti, il traffico, la vita attiva della città.

Proseguendo il suo racconto, D’Annunzio  ricorda  che mentre passavano sul prato,  la sua compagna  dal ui chiamata  Ghisola gli chiedeva  “Che cerchi?”.

E così continua:

“ Imbruniva. L’ombra del marmo era cerulea. E’ quello un marmo che a vespro fa il turchino come i lapislazzuli. Inazzurrava l’erba, quasi come una pennellata d’oltremare. Il silenzio si apriva dinanzi a noi, si partiva a destra e a sinistra fluendo lungo i nostri fianchi come il fiume leviga il nuotatore. Il nostro sentimento era semplice e ineffabile. Eravamo poveri e leggeri, eravamo ricchi e leggeri. Eravamo come due mendicanti senza bisaccia e come due regnanti senza diadema”.

Espressioni  anch’esse levigate, coinvolgenti nonostante un po’di virtuosismo retorico.

“Che cerchi?”, mi domandava la Ghisolabella, a intervalli, come in una cadenza.

D’Annunzio  aveva dato alla Duse questo appellativo dantesco. Nella Divina Commedia si parla, appunto di una donna che – come commenta l’Anonimo – poiché   avanzava in bellezza tutte le donne bolognesi a quello tempo, fu chiamata la Ghisola bella “.

“Ero un cercatore magico di tesori o di sorgenti?  –  prosegue il racconto  –  Avevo in me tutte le mie sorgenti e tutti i miei tesori. Cercavo la mia voglia. Ed ecco che avevo trovato!

Dopo aver incuriosito il lettore circa il misterioso oggetto di questa ricerca, così conclude la narrazione:

“Mi curvai nell’ombra umida, frugai destramente con le dita l’erba umida. Anche la mia faccia china si sentiva tinta d’oltremare; anche le mie mani si facevano azzurricce.

“Ma che cerchi? Che cerchi?”

Avevo scoperto un ciuffo di violette”.

Un fiore umile ma carico di simbolismi.   Il poeta considerato propugnatore del mito del superuomo, sapeva trovare momenti di tenerezza  a riprova della sua  personalità complessa e sfaccettata.    Questa giornata idillica  dell’acquazzone di marzo  era nel cuore di D’Annunzio fin dal suo primo soggiorno tant’ è vero che il 16 gennaio 1896  aveva scritto all’amico Herelle che curava la  traduzione in francese delle sue opere.

Mio caro Giorgio,

io non arrivo mai a liberarmi da l’incantesimo toscano. Sono da qualche giorno a Pisa che è primaverile e tutta d’argento.

Passo delle lunghe ore al sole sui gradini del Duomo, sotto le mura merlate, di contro una porta di bronzo mentre simboli parlano al mio animo silenzioso…

(G.D’Annunzio, Epistolario, lettera al sig. Hèrelle, 16/1/ 1896 citato da  R,Fiaschi, D’Annunzio a Pisa, Giardini 1968)

Come si vede c’era già in nuce tutta la suggestione del suo soggiorno pisano  quando

nell’arco di tempo tra il 1894 e il 1912 dimorò a lungo a Marina di Pisa dove scrisse  celebri versi. Ad esempio,  ne La tenzone (in  Laudi – Alcyone) esaltano   il vitalismo attraverso l’immagine  panica  dell’estate

O Marina di Pisa, quando folgora

il solleone!    

Ma altrettanto importanti sono nella medesima poesia le immagini che esaltano la solitudine, in mezzo alla natura, la ricerca della quiete.  D’Annunzio parla  con affetto dell’Arno  che quando si getta in mare  sembra un lago in quanto è lento e silenzioso, assai lontano dall’andamento impetuoso a monte di Firenze. E in  queste immagini possiamo vedere un  simbolo del desiderio di pace dopo le traversìe del suo ultimo soggiorno fiorentino

(…) Come l’Estate porta l’oro in bocca

L’Arno porta il silenzio alla sua foce. 

Merita, poi citare una descrizione  tratta da La Gioconda  (1898)

… si vedono gli oleandri, le tamerici, i giunchi, i pini, le arene d’oro sparse d’alghe morte, il mare in calma sparso di vele latine, la foce pacifica dell’Arno, di là dal fiume le macchie selvagge del Gombo, le cascine di S. Rossore, le montagne di Carrara marmifera…

E  particolarmente significativi, infine i versi

 

Forse avverrà che quivi un giorno io rechi

il mio spirto fuor della tempesta,

a mutar d’ale.

 (Elettra, Le città del silenzio, 1903).

A  mutar d’ale.  E’forse la cifra del suo stato d’animo nel periodo pisano..la quiete, l’immergersi nella natura.. il destino  avrebbe deciso altrimenti.  E  nel 1914 sarebbe nato il poeta-vate.

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