Nonno Renato e la Giornata contro la violenza sulle donne

Pistoia – “Mi chiamo Renato, sono il padre di una ragazza meravigliosa uccisa, come tante altre, dall’uomo che diceva di amarla.” Così inizia il lungo articolo/testimonianza raccontata da Giusi Fasano del Corriere. Una lunga e dolorosa narrazione di un padre a cui hanno ucciso la figlia  di 35 anni, che ho letto e riprendo per ribadire quanto sia necessario fare per queste situazioni.

La figlia  “morì di coltello per mano del padre dei suoi figli”. Una delle 774 donne uccise dal 2012 ad oggi. Un numero importante, serio e prepotente nel diritto a ricevere risposte. “Lei era con i suoi bambini – dice suo padre – e quel giorno di marzo del 2015: teneva per mano la piccola di tre anni, ed era accanto al più grande, di sei”. L’assassino, suo marito, li sorprese davanti alla porta di casa e sua figlia non ebbe scampo. I bambini la videro in una pozza di sangue prima che il grande riuscisse a portar via la sorellina e fuggire dalla vicina per chiedere aiuto, mentre suo padre gridava «bastardo, dove scappi?».

Da quel giorno, doloroso ed infame, cosa è accaduto a questa famiglia così mutilata, ferita e gravemente offesa? Ciò che da tempo viene denunciato nelle opportune sedi. E cioè si viene a creare una nuova realtà, detta di «vittime collaterali», gente che ha perduto tanto o tutto, come loro, che però deve obbligatoriamente andare avanti, nonostante la sofferenza, e le difficoltà del “dopo”. Con annessi e connessi. Ed è proprio questo il punto importante sul quale è necessario fermarsi a riflettere. Proprio le difficoltà del “dopo”. Durante la scorsa legislatura è stato fatto molto su questo da parte della Commissione PO , è stata avanzata proposta di Legge, approvata seppur con fatica nel Dicembre 2017, ma forse non viene applicata? Come mai questo ” nonno” denuncia solitudine ed abbandono?

I bambini che perdono la madre per mano del padre sono orfani due volte. Questo si è reso evidente. Esiste una  norma, infatti, fortemente voluta dal Governo precedente, che dal Dicembre 2017 tutela gli orfani di femminicidio, un dovere per le tante vittime innocenti e per le famiglie che le accolgono, come i nonni lo sono di fatto. Era doveroso ed urgente per lo Stato, dopo aver sostenuto fortemente questo impegno, aver preso atto della portata di questo disagio tanto da disegnare ed attuare una serie di misure di natura diversa – a cominciare dal sostegno economico – adeguate a sostenere questo percorso segnato da lutto e dolore. Ed è quantomeno urgente provvedere, mettere in pratica quanto legiferato, perché se per un minuto si provasse ad immaginare cosa significa continuare a vivere dopo aver subito un fatto del genere, con il dolore di una perdita e la necessità comunque di dover tirare il fiato ed andare avanti  per chi resta, come i nipoti, che nulla hanno fatto per meritarsi questo, nella completa solitudine, “vessati da una burocrazia a dir poco molesta, da regole a volte incomprensibili e pagamenti che per decenza nessuno dovrebbe chiederci.” come afferma il nonno Renato in questione, c’è da rabbrividire…

Come ogni anno, nel mese di Novembre si celebra la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. E come ogni anno si aggiungono nomi nuovi nell’elenco infinito delle vite perdute. C’è da chiedersi davvero cosa celebriamo se non riusciamo a cambiare mai niente? Si parla di strategie, di sostegno, di centri ANTIVIOLENZA, utili per carità, ma quanto? Si invitano le donne a denunciare, e poi? Che aiuti concreti?

“ Mia figlia ne sapeva qualcosa, di violenza. E parlo quasi esclusivamente di violenza psicologica, perché quell’uomo in questo era un professionista: nell’umiliarla, minacciarla, farla sentire una nullità. E se la prendeva anche con i suoi figli: svegliava il maschietto di notte per fargli paura, gli diceva cose orribili, lo trattava male. Un orco. Ogni volta, quando si parla di femminicidi la parola d’ordine è: denunciate, non rimanete in silenzio”, aggiunge Renato.

Sua figlia lo aveva fatto. Sette mesi prima di essere uccisa era andata dai carabinieri, si era rivolta al consultorio familiare, aveva raccontato dei maltrattamenti subiti, aveva avviato un procedimento penale. Ma le cose invece di migliorare peggiorarono in fretta. Quella denuncia fu la sua condanna. Non c’è stata tutela, non c’è stato sostegno. E non c’è neppure oggi, come denuncia questa intervista. E sappiamo bene tutti non essere un caso isolato.

Sono rimasti soli, Renato e sua moglie, e le creature innocenti private della loro mamma. Bambini che ogni minuto delle loro piccole vite lottano, come dice il nonno,  per non annegare nel mare dei cattivi ricordi. Renato ha 74 anni, sua moglie 67. “Siamo vecchi, diciamocelo- dice- Ma dobbiamo sperare che la salute ci assista ancora a lungo perché questi piccoli hanno bisogno di noi”

Questa famiglia ha dato fondo a tutte le loro risorse per  seguire i tre gradi di giudizio per l’omicidio, per le cause civili per l’affido dei piccoli, quella per ottenere almeno gli alimenti (i genitori di lui pagano per i bimbi 800 euro al mese), quella per escludere che la famiglia di lui possa avere notizie dirette sui bambini, quella penale per i maltrattamenti che mia figlia stessa aveva cominciato (anche lì dal primo grado alla Cassazione). Ed oggi stanno affrontando una ennesima causa per  togliere a lui i diritti sulla casa che stanno pagando loro, e sarà dei piccoli, un domani.

Immenso ed indescrivibile il grado di complicazioni e burocrazia che “ nonno” Renato racconta in seguito a tutto questo. “Passo giorni interi fra rendiconti ai servizi sociali, giudice tutelare, fila davanti a qualche sportello, tribunale dei minori… Uno sfinimento che non auguro a nessuno” si legge nell’intervista.

Vivono di pensione, da ex insegnanti e seppur  dignitosa, da quando è successo il fatto si trovano costretti a tirare la cinghia. Tutto è per loro, per i bambini, com’è giusto che sia.

Dietro a queste tragedie, a parte il dolore immenso ed insormontabile, e comprensibile di una perdita così grave,  c’è un mondo talvolta sconosciuto ai più. Non se ne parla mai, non abbastanza. E non abbastanza si fa per sostenere chi subisce un evento del genere. Queste famiglie si trovano catapultate improvvisamente in un mondo contornato da psicologi, insegnanti di sostegno, con  spese enormi, ma  necessarie in ogni famiglia, specie per due bimbetti di quell’età. Spese anche per avvocati, a totale carico loro, talvolta, come in questo caso, anche un mutuo sulla casa che la figlia non aveva ancora estinto, e non solo la sua, ma pure la parte del marito- assassino, che se non pagata porterebbe al pignoramento gettando alle ortiche il futuro dei figli. Un vortice a spirale senza soluzione di continuità.

Lui ha preso 30 anni per l’omicidio e altri 4 anni e 8 mesi per i maltrattamenti, ma non c’è un numero di anni di prigione che tolga la paura. Più di una volta ho dovuto portare il bambino davanti a un carcere vicino alla nostra città per vedere le guardie, le sbarre, il filo spinato e le camionette perché lo tranquillizzava. La loro domanda più ricorrente è: «Nonno, le sbarre non si possono aprire con un coltello, vero?», oppure — quando vedono gli altri bambini con i loro genitori —: «Perché abbiamo avuto un papà che ha ucciso la mamma?».” Continua il nonno-

“Io e mia moglie dobbiamo sempre avere la prontezza per rispondere bene, per sorridere, anche se delle volte ci verrebbe da piangere. Ma poi sentiamo la vocina dei bimbi che vengono a darci un bacetto e a dirci «siete i nonni migliori del mondo» e ritroviamo le forze per andare avanti. Noi «vittime collaterali» abbiamo l’obbligo di essere forti, è una questione di sopravvivenza. Vorremmo solo che le istituzioni ci fossero più vicine invece che esserci quasi nemiche, vorremmo che ci semplificassero un po’ la vita. Nel nome di nostra figlia e di tutte le altre.”

Io credo che abbia ragione. Molta ragione.

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