Reggio Emilia – Il Premio Nobel per la pace viene assegnato annualmente dal Comitato per il Nobel norvegese, composto da cinque persone scelte dal Parlamento norvegese.
Come è noto, nel 2017 è andato alla organizzazione International Campaign to Abolish Nuclear Weapons per il suo lavoro per portare l’attenzione alle conseguenze umanitarie catastrofiche di qualunque uso delle armi nucleari e per i suoi straordinari sforzi per ottenere un trattato che metta al bando queste armi”.
Sforzi importanti, per allontanare il rischio dell’olocausto nucleare, ma ostacolati dalla miopia dei governi e dal rifiuto dei nove stati (oggi dieci, col preoccupante ingresso nel Club nucleare della Corea del Nord) dotati di tali armi a ridurre ulteriormente i loro nutritissimi arsenali, come previsto dall’articolo VI del Trattato per la non-proliferazione nucleare (NPT).
Ricordiamo che il 23 dicembre 2016 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione storica per la convocazione nel 2017 dei negoziati su un trattato che vieti le armi nucleari. L’esito della votazione è stato di 113 nazioni a favore e 35 contro, con 13 astensioni; l’Italia ha votato a favore. Tanto per incominciare, sarebbe bene che l’Italia rinunciasse alle 60 – 80 armi nucleari (sotto il controllo degli USA) presenti sul suo territorio.
Il 7 luglio 2017 l’Assemblea ha adottato un Trattato per la proibizione delle attività connesse con le armi nucleari, produzione, sviluppo, test, impiego diretto di tali armi o minaccia di impiego, con 122 voti favorevoli e un solo contrario. Purtroppo Stati Uniti, UK e Francia non parteciparono e si affrettarono a dichiarare che non intendono ratificare il trattato. Il 20 settembre all’ONU si svolse la cerimonia della firma del Trattato.
Tornando ai Nobel, già in altre occasioni il Premio era stato conferito a organizzazioni che si impegnavano per il disarmo, il rischio nucleare, interventi umanitari. Ad esempio, alla Croce rossa (1917 – era in corso il macello della prima Guerra mondiale – e 1944), ad Amnesty International (1977), alla Campagna internazionale per il bando delle mine antiuomo (1997), a International Physicians For The Prevention Of Nuclear War, a Pugwash Conferences on Science and World Affairs (1995. Il premio è stato ritirato dal mio collega e amico Francesco Calogero, allora segretario del Movimento), a Medici senza frontiere (1999).
Molti sono i Nobel per la pace assegnati a uomini politici, e in diversi casi i candidati scelti sono poco convincenti. Alcuni esempi:
Theodore Roosevelt (1906), la cui politica estera, da presidente degli Stati Uniti, è stata nettamente interventista e aggressiva, la cosiddetta politica del big stick(*); sua la decisione di invadere la Repubblica Domenicana e nel 1903 l’invio di truppe in appoggio alla rivolta panamense contro la Colombia per ottenere la concessione della zona dove si voleva costruire il canale. Espressioni concrete del “Corollario Roosevelt”, estensione della precedente “Dottrina Monroe”, che sostiene l’uso della forza in qualsiasi punto della terra con il fine di salvaguardare gli interessi nazionali.
(°) La locuzione speak low and carry a big stick (parla gentilmente e portati un grosso bastone) è usata per indicare la politica statunitense di intervento diplomatico e militare negli affari interni degli altri Stati americani.
Thomas Woodrow Wilson (1917), 28º presidente degli Stati Uniti. Istituì la segregazione razziale nel governo federale e richiese fotografie dai candidati per posti di lavoro, per determinare la loro razza; aveva un atteggiamento sospettoso per quelli da lui chiamati «Americani col trattino» (hyphenated Americans: tedeschi-americani, irlandesi-americani, etc.): «Ogni uomo che porta con sé un trattino, porta un pugnale che è pronto ad affondare nelle parti vitali di questa Repubblica ogni volta possibile. Tra il 1914 e il 1918 gli Stati Uniti intervennero molte volte, anche con invasioni, in America Latina, in particolare in Messico, Haiti, Cuba, Panama, Nicaragua. Tra il 1917 e il 1920 gli USA appoggiarono il movimento dei Russi Bianchi nella guerra civile russa, dapprima finanziariamente, ma in seguito con un blocco navale e truppe di terra a Murmansk, Arcangelo e Vladivostok.
Henry Kissinger (1973, con Lê Ðức Thọ). I suoi metodi spregiudicati di azione politica includevano pesanti interferenze, anche militari, su governi e politici stranieri, come nel caso del Cile e dell’Argentina; ebbe un ruolo di sostegno attivo al colpo di Stato militare dell’11 settembre 1973, operato da Augusto Pinochetcontro il presidente socialista cileno, democraticamente eletto, Salvador Allende, Nel 2001 furono formalizzate accuse precise in merito (tra cui l’aver ordinato l’omicidio del generale René Schneider) e vennero aperte varie inchieste. Nel 2001 il giudice argentino Rodolfo Corral emise nei suoi confronti un mandato di comparizione per la presunta complicità nell'”Operazione Condor”(°).
(°) Massiccia operazione di politica estera statunitense, che ebbe luogo negli anni settanta del XX secolo, in alcuni stati del Sud America, volta a tutelare l’establishment in quegli stati dove l’influenza socialista e comunista era ritenuta troppo potente. Le procedure per mettere in atto questi piani ebbero in comune il ricorso sistematico alla tortura e all’omicidio degli oppositori politici. Ambasciatori, politici o dissidenti rifugiati all’estero furono assassinati anche oltre i confini dell’America Latina. Alcune fra le nazioni coinvolte furono Cile, Argentina, Bolivia, Brasile, Perù, Paraguay e Uruguay.
Menachem Begin (1978, con Muḥammad Anwar al-Sādāt). Comandante, dal 1942 dell’Irgun, gruppo di resistenza sionista di destra, che, nel 1948, si renderà responsabile del Massacro di Deir Yassin. Nel 1981 Begin ordinò la distruzione della centrale nucleare irachena di Osirak. In una lettera al New York Timesdello stesso anno Albert Einstein, Hannah Arendt e altri lo accusarono di “fascismo”, “terrorismo” e di “propagandare idee di superiorità razziale”.
Aung San Suu Kyi (1991). Politica birmana, attiva da molti anni nella difesa dei diritti umani nel suo Paese, oppresso da una rigida dittatura militare, imponendosi come capo del movimento non-violento. Dal 2017 è stata al centro di pesanti critiche da parte della pakistana Malala Yousafzai, anch’essa premio Nobel per la Pace, che le ha chiesto di condannare le violenze perpetrate dall’esercito birmano contro la minoranza musulmana Rohingya. Numerose altre proteste si sono succedute contro il suo comportamento giudicato indifferente – quando non propriamente ostile – nei confronti dei Rohingya.
Alcuni esperti di crimini hanno segnalato che Suu Kyi sta “legittimando questo genocidio” in Myanmar e che nonostante la continua persecuzione «non vuole neanche ammettere, figuriamoci provare a bloccare, la conclamata campagna di stupri, omicidi e distruzione perpetrata da parte dell’esercito ai danni dei villaggi Rohingya. Si stima che in un solo mese le forze governative del Myanmar abbiano ucciso quasi 7000 musulmani Rohinghia (Time, dicembre 2017).
Yasser Arafat, Shimon Peres e Yitzhak Rabin ricevono il Premio Nobel per la pace dopo gli Accordi di Oslo nel 1994. Che fine misera ha fatto il riconoscimento del diritto dei palestinesi ad avere un loro stato è mostrato, tra l’altro, dall’incessante processo di insediamenti ebraici nei territori della Cisgiordania, prima e dopo gli accordi di Oslo.
Qualche perplessità ha sollevato anche il premio assegnato, nel 2009, a Barack Obama. Di fronte a questi esempi non è possibile concludere, benevolmente, con la battuta di chiusura del film Some Like It Hot. Forse sarebbe opportuno che il Comitato evitasse di assegnare il premio a personaggi della politica.
Foto: Yasser Arafat, Shimon Peres e Yitzhak Rabin ricevono il Premio Nobel per la pace