Si aggira uno nuovo (e vecchio) spettro mentale ancor più che intellettuale nei tentativi di “dibattito” che infestano i social network con particolare assiduità in questo scorcio agostano: il neo-trinariciutismo post soviet. Predisposizione spesso inconscia che agita la tastiera dei commentatori della domenica e ancor più subdola da quando appunto l’adagio “destra e sinistra sono indistinguibili” è diventato a sua volta un luogo comune. Puttanata politologica sesquipedale valente forse per l’italico suolo laddove nei decenni recenti l’alternanza di governi afferenti questa o quella parte geografica della gamma dei colori, non ha provocato risultati dissimili.
Il letale mix di buonismo, radicalchicchismo, neo-trinariciutismo (a monte probabilmente anche frettolose letture dei titoli dei libri senza addentrasi più di tanto nei tomi) e perché no, una sorta di talebanesimo dell’iperdiritto rivolto a tutto ciò che è ritenuto “diverso” (non è però mai chiaro “diverso da chi o da cosa”) o specie da proteggere in quanto presuntamente più debole, dà vita ad un cocktail sempre più indigesto di censura (e consequenziale autocensura di chi dissente) e rischio di espunzione morale dal consesso sociale benpesante. Sì perché il coro dell’avanguardia luogocomunista non ammette cedimenti di pensiero, aggrottamenti dubbiosi di ciglia, aperture anche solo per scherzo alle teorie fallibiliste popperiane. Nemmeno satire poco pungenti (alla faccia di Quintiliano che già 1900 anni fa circa, si inorgogliva nell’attribuzione tutta latina del genere letterario). Colui che eccepisce, distingue, scava è automaticamente classificabile nell’alveo nazifascista, anche se le idee che animano la sua smania di confronto possono essere mille volte più radicali e/o liberali della conventicola dei Torquemada.
Ci sono zone grigie in cui è perfino vietato approcciarsi con intento critico: le culture diverse dalle nostre, i matrimoni gay, il corpo delle donne per citare gli ultimi, più eclatanti casi. Ma la lista, ahinoi, si sta allungando terribilmente, con buona pace dell’articolo 21 della Costituzione (“più bella del mondo”) sulla libertà d’espressione. L’ultima “vittima” di questo clima da caccia agli stregoni più che alle streghe, è stato il direttore di Qs Giuseppe Tassi (che essendo un professionista di lunga data agente in contesto pubblico come quello del giornalismo e con presumibile corposo stipendio alle spalle deve comunque stare al gioco della pioggia di critiche), reo di aver avallato il sottotitolo “cicciotelle” affibbiato alle tre arciere azzurre che hanno sfiorato il podio alle Olimpiadi. Orbene, Tassi con questo aggettivo, in realtà innocuo e confidenziale vezzeggiativo, sarebbe stato obnubilato dal superficiale e becero “sessismo” che starebbe minando alle radici il vivere civile tra le parti, impedendo uno sviluppo positivo verso mondi migliori, in pace e senza distinzioni di razze, popoli e perfino sessi.
All’immediato grido pilatesco e, questo sì, malpancista “chi volete voi libero, Gesù o Barabba?, il popolo del web, ha chiesto ed ottenuto, tramite rimozione, la testa di Tassi, ridando così alle donne tutte quella dignità smarrita con la definizione gaglioffa e galeotta. Ossessionati da un terminologicamente corretto (che dovrebbe essere studiato ed eventualmente curato come nuova forma di socio-patologia) che sta facendo regredire il confronto a secoli fa, mascherati dalle nuove forme dialettiche tutte virtuali (la gran parte dei compulsivi ed aggressivi tastieristi facebook difficilmente sarebbe poi in grado di reggere un dibattito in presenza fisica dell’interlocutore), dovessimo calare i castranti stilemi contemporanei sulle grandi opere del passato, difficilmente per esempio avremmo la Divina Commedia così com’è. Che la stragrande maggioranza dei protagonisti (realmente esistiti) sono descritti dall’Alighieri senza badare troppo ai salamelecchi lessicali.
Ma alla canea di chi soggiace senza averne consapevolezza alle sovrastrutture gramsciane più che alla volontà di andare al cuore del problema, è probabile che i Canti danteschi piacciano solo se edulcorati (a suon di 500mila euro di soldi pubblici) da Roberto Benigni che non letti e meditati in solitudine magari coadiuvati da un buon apparato critico. Ed il mondo delle vestali che si stracciano le vesti per le “cicciotelle”, lo vorremmo vedere altrettanto offeso e impegnato nel denunciare i quotidiani soprusi che donne di altre culture, nel generale silenzio perbenista, subiscono dagli uomini all’interno delle nostre comunità o le discriminazioni sul lavoro che mamme o future tali continuano a ricevere grazie alla compiacenza di una legislazione ancora troppo blanda sui temi della famiglia e del suo sostegno. Altrimenti l’impressione resta quella di fare semplicemente il gioco di quella “società maschilista” che si vorrebbe invece aprire ad orizzonti più equi.
Che le parole volano, i meccanismi si incancreniscono.