Natale non è comunque un giorno come gli altri

babboC’è una cosa che salta all’occhio quando si guardano i format televisivi americani e si fa il raffronto con le corrispondenti versioni italiane: il disincanto. Che si tratti da cucine, bar, hotel da incubo, immediatamente è chiaro come gli italiani – sia i protagonisti, sia le vittime di turno – siano scarichi, privi di energia, di entusiasmo, di fiducia. Le emozioni sono di cera, come certa frutta che le zie nubili più formali mettevano ai tempi d’oro nella fruttiera, sul tavolo del salotto; i discorsi formali, estorti con le pinze, le dinamiche mosce e deludenti. Là piangono, si incazzano, si emozionano, si saltano al collo, si entusiasmano; qui ripetono stanche frasette motivazionali e più che altro sembrano recitare con la stessa perizia dei nostri sceneggiati, monotoni, privi di espressione, i dialoghi stereotipati – tanto più preoccupante, quanto non sono preparati. Cioè: la gente da noi veramente vive così.

Sei nella pupù fino al collo, arriva Cannavacciuolo pieno di boria e trigliceridi, alza la voce e cameriere con gli occhi cerchiati di nero tipo panda tirano fuori un mesto sorriso di circostanza che nasconde la volontà, plateale, di continuare a strascicare i piedi e fumare in cucina non appena le telecamere avranno preso la via del ritorno. In una parola: spenti. Che siamo un popolo spento te ne accorgi in ogni momento, ma mai come sotto le festività natalizie questa cosa diventa evidente. Anche qui, il confronto è terribile, impietoso: i film che passa la televisione sono tutti, senza eccezione, anglosassone, o alla peggio di Hong Kong; rutilanti, pieni di sentimenti, di morali se vuoi stucchevoli ma sempre in tono col periodo. Il messaggio, senza eccezione, è: aprite il vostro cuore, che cavolo, almeno una volta l’anno credete, o almeno fate finta di credere, alla magia. Alla possibilità di non fare una esistenza da Travét. E invece: a nulla valgono le tante, tantissime versioni del Canto di Natale di Dickens (che pure, non era uno scrittore per l’infanzia né un apostolo del consumismo: era uno che intingeva la penna nel vivo, nel marciume).

christmassFare gli auguri, non è à la pàge. E’ infantile, melenso e banale. Il Natale, con tutto il suo correlato di regali, regaloni, messe di mezzanotte, alberelli inguardabili e non, cenoni, vigilie di pesce e pranzi da infarto, è una festa evidentemente consumistica. Come tutte le feste; ma il Natale, di più ancora. Siamo di fronte, con ogni chiarezza, ad una delle tante feste dei negozianti che l’anno ci regala; il guadagno sopra ogni cosa, perché ci sono interi settori che campano proprio con gli incassi di questo periodo, e per riempire il portafogli non ci si ferma nemmeno di fronte alla possibilità di restare inchiodati in funivia, sospesi nel cielo: state scherzando, annullare il Cenone per un po’ di vento? Ma neanche morti. Cioè, speriamo. E la frenesia dei regali – oddio, ho scordato lo zio, oddio, quest’anno regalo solo ai bambini che abbiamo le tasche che piangono, oddio, la strada intasata, la Bratz esaurita, i lavoranti Amazon incatenati ai terminali – dilaga nella dipendenza da acquisti che poi ti fa dire, ehi, ma chiudete il supermercato a Natale e anche a Santo Stefano?!?

Roba da ricorrere agli ansiolitici. Perché dopo un po’ è evidente che l’acquisto, fosse anche del burro o dei ciccioli o del dado da brodo o della Settimana Enigmistica, è un po’ come il coraggio liquido dell’etilista: una dipendenza. Compri, per un attimo ti senti un po’ più felice. Poi passa. E allora, esci e compri qualcosina ancora; magari un mestolo, la maionese, non importa. Il consumismo, insomma, non è certo un problema del Natale. E’ diventata una modalità automatica per tutti noi: hai voglia, a cercare di resistere. Nessuno vuol tornare indietro. E poi, per favore: anche se persino il Grinch si trova a dover rivedere la sua posizione, che il Natale non risiede nei regali che ha sottratto, è evidente che nello scartare i pacchi c’è qualcosa di più che non il semplice acquisire cose. Tanto più che la maggior parte di queste finiranno dimenticate entro pochi giorni, o reinvestite, o gettate via. Stesso dicasi per il cibo: s’è mai vista una cosa inutile come ingollare 1000 calorie, per poi andare a riposare e il mattino dopo evacuarle tutte sotto altra forma? Inutile, inutile.

Però. Il punto del Natale è che, come si ostinano a volerci raccontare in tutte le salse gli americani, non ci si deve concentrare sul dito. Ma bensì sulla Luna. Che crediate o no, che siate o no felici, lavoriate o meno, questo è senz’altro uno di quei giorni da sempre da considerarsi speciali. Che poi se ne sia fatto da una celebrazione del ritorno del Sole dopo il Solstizio invernale una festa cattolica e poi il simbolo stesso della bontà poco importa, in fondo; è un giorno che non si può far finta che sia come gli altri. Nella gioia, e nella tristezza; perché il ricordo dei Natali passati, con famiglie ancora solide, con voi bambini che scalzi aprivate i regali, con i genitori e tutti gli altri ancora vivi e giovani e persino un po’ allegri, è uno di quelli che faticano ad essere sepolti tanto in profondità da non tornare a tormentarci con la loro mancanza. Sta allora qui la scelta: se considerare certi giorni come speciali – Natale, Capodanno, Pasqua, il matrimonio, il compleanno, la laurea, quello che vi pare – oppure non considerare speciale proprio niente, alla fine.

Perché ora per consumismo, ora per disillusione, ora per posa, ora per dolore, dai e dai il pensiero che passa nel cinismo affettato sui social e nelle strade è che in fondo non ci sia proprio niente da festeggiare, mai, per nessun motivo razionale. A ciascuno il suo; nessuno vi impedisce di sforzarvi di essere pratici, intelligenti, moderni, disillusi. Noi preferiamo quel senso di malinconico stupore nell’accorgerci che ancora i bambini, beninteso quelli non politicizzati, a Babbo Natale ci credono, contro ogni evidenza. E per dirla tutta odiamo a morte quei saputelli dei loro coetanei che cercano, per pura malizia infantile, di scuoterli dal loro dolce sonno. Ci sarà un sacco di tempo, per svegliarsi, e non sarà mai abbastanza. Ma oggi, magari per mettere le fondamenta per un senso del magico, del meraviglioso, preferiamo continuare, se preferite metterla così, un poco a dormire. Un poco ancora. Per lamentarci, visto che pare che ogni giorno non possa essere speciale (ma perché poi?) abbiamo tutti i restanti giorni dell’anno.

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