Firenze – I cristiani in Terra Santa sono una minoranza. In Palestina molti di loro in questi anni di conflitto hanno lasciato la propria casa e l’attività per migrare in Europa o in America. Decine di famiglie sono partite da Betlemme per il Sud America. È stata una fuga in massa mentre un serpentone di cemento e filo spinato cingeva le loro case. È bene ricordare come il conflitto israelo-palestinese non è solo armi ma anche la costruzione di un muro di separazione che di fatto priva i palestinesi della libertà di movimento. Betlemme e Gerusalemme distano pochi chilometri in linea d’aria ma ciò non vuole dire che un palestinese possa liberamente entrare nella “città santa”, al contrario. Sono gli effetti meno visibili di un conflitto endemico dove si passa dalla violenza distruttiva a quella psicologica in continuazione. E le buone notizie da raccontare sono spesso poche. Questo Natale le autorità israeliane hanno allentato le misure di sicurezza ai palestinesi di fede cristiana. Su questa decisione del governo di Gerusalemme deve aver influito il viaggio del Pontefice dello scorso maggio. E così anche per le famiglie cristiane che vivono lungo le sponde del Mediterraneo nella “prigione” di Gaza si è aperta la porta verso la chiesa della Natività. Sono 700 i cittadini di Gaza che avranno libero accesso a Betlemme o in altre città della Palestina e che potranno far visita a familiari che non vedono da anni. Per il solo periodo delle festività natalizie le autorità israeliane hanno disposto che a 500 palestinesi cristiani della Cisgiordania sarà concesso entrare a Gaza. Inoltre 200 palestinesi potranno usufruire dell’aeroporto di Tel Aviv invece di doversi trasferire in Giordania ad Amman, per prendere un qualsiasi aereo. Insomma è un bel regalo che quest’anno i cristiani palestinesi hanno trovato sotto l’albero di Natale.
Ma non tutti in quel lembo di terra festeggeranno allo stesso modo. Se la Palestina plaude alle scelte internazionali, che spingono per il riconoscimento unilaterale di uno stato sovrano palestinese, da parte israeliana le proteste non mancano. Nella settimana appena trascorsa il “falco” della politica israeliana, il premier Netanyahu, ha incassato una serie di colpi diretti e precisi. Prima il voto di Strasburgo dove a larga maggioranza, 498 voti a favore e 88 contrari, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione non vincolante ma sottoscritta dalle principali famiglie politiche. La mozione è stata presentata dai socialdemocratici e condivisa da verdi e popolari, sostiene “in linea di principio” il riconoscimento dello Stato della Palestina sulla base dei confini del 1967, appoggia, inoltre, la soluzione di due Stati con Gerusalemme capitale ed esorta, quale condizione, la ripresa dei colloqui di pace. Netanyahu è stato implacabile nel commento al voto dell’europarlamento: “…troppe persone in Europa, nella stessa terra dove 6 milioni di ebrei sono stati massacrati, non hanno imparato alcunché.” Passano le ore ed arriva un altra notizia, l’ennesima doccia fredda della giornata per il governo di Gerusalemme, la corte di Giustizia dell’Ue ha tolto Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche. I giudici appellandosi a motivazioni procedurali hanno annullato la decisione dell’Unione di iscrivere i fondamentalisti palestinesi nella lista nera. Una decisione che non mancherà di far discutere anche perché trattasi di “una sentenza legale, non una decisione politica”. Nel frattempo le misure restrittive restano in atto e “questo significa che la Ue continua a considerare Hamas un’organizzazione terroristica” come ha prontamente dichiarato il portavoce della Mogherini, mentre il primo ministro israeliano tuonava che non avrebbe accettato la decisione del tribunale dell’Ue.
Nemmeno il tempo di chiudere il caso Hamas che dal palazzo di Vetro piove un’altra tegola su Netanyahu. Era l’ultimo affondo della giornata e il fegato di Bibi deve averne sofferto. A perpetrare la stoccata è stata la Giordania, alleato storico e strategico d’Israele in Medio Oriente, presentando ufficialmente al Consiglio di Sicurezza una bozza di risoluzione per il negoziato di pace tra Israele e Palestina. Il piano giordano prevede l’entrata in vigore entro un anno e la conclusione entro il 2017 con la fine dell’occupazione militare israeliana nella West Bank: ritiro incondizionato dell’esercito con la stella di Davide all’interno dei confini del 1967. Veti incrociati hanno più volte interrotto l’iter di risoluzioni internazionali. Vista la “complessità” della materia israelo-palestinese non ci sarebbe da meravigliarsi se anche in questo caso il veto USA allungasse i tempi della discussione. Resta chiaro che l’obiettivo della Giordania è arrivare ad una consultazione con la maggioranza dei voti a favore, puntando ad uno storico 9 su 15. Ovvero avere una decisione “unanime” da parte del Consiglio per poter adottare la risoluzione. Il nodo da sciogliere, al momento, è capire l’atteggiamento delle principali potenze europee, esclusa l’Italia che non si è ancora pronunciata sulla questione anche se in Parlamento aleggiano da settimane due distinte mozioni da parte delle minoranze. Voci confermano che la Francia avrebbe già preparato una bozza alternativa che non dispiacerebbe troppo agli americani. La prima bozza palestinese circolata informalmente era stata dichiarata inaccettabile proprio dalla diplomazia di Washington e successivamente ritirata. Il testo francese invece implica un processo di pace in due anni. Gli altri parametri inseriti nel testo sarebbero in linea di massima quelli approvati a Strasburgo poche ore prima. Gerusalemme capitale di due stati. Stato della Palestina nei confini del 1967 e accordo di sicurezza tra israeliani e palestinesi. Ora solo Obama può ergersi a ultimo difensore delle richieste della destra israeliana. Alla fine quello che ci chiediamo è: nel Natale 2014 quale sarà il regalo per Netanyahu?
da Enrico Catassi e Alfredo De Girolamo
Foto: Luca Grillandini da Gerusalemme Est