Myanmar, la fine del sogno di Aung San Suu Kyi

Pisa – Ieri Birmania, oggi Myanmar. Una storia contemporanea scritta per gran parte dai militari. Almeno fino al 2015, quando il partito dell’opposizione guidato da Aung San Suu Kyi vinse in modo schiacciante quelle che sono considerate le prime elezioni libere nel Paese. Il regime militare vedeva definitivamente incrinato il proprio potere, la giunta dei generali sembrava sul punto di tramontare definitivamente. Il palcoscenico e le luci erano tutte per la donna che aveva reso possibile questo sogno di democrazia. Ma la realtà era ben diversa dalle aspettative di cambiamento in cui tanti avevano riposto la propria speranza.

Il Myanmar è uno stato attraversato da una miriade di guerre intestine, focolai di rivolta presenti nelle regioni al confine con l’India e in quelle a Nord verso la Cina. Aree dove ciascun gruppo etnico rivendica ampi spazi di autonomia, sfoggiando milizie armate. Contenziosi e violenza. Interminabili guerre civili. Guerriglia e terrorismo. Attentati a cui il governo centrale ha risposto con il pugno duro, lanciando rappresaglie che hanno colpito indiscriminatamente anche la popolazione civile appartenente alle minoranze.

San Suu Kyi agli occhi di molti sembrava l’unica figura in grado di mediare le diverse anime in conflitto, riportare la pace, dare stabilità. È stata frettolosamente elevata a garante del percorso di riconciliazione tra le parti già prima di vincere la propria battaglia per la libertà. Per l’attività in difesa dei diritti umani, i lunghi anni trascorsi agli arresti, il coraggio dimostrato, è stata insignita del premio Nobel per la Pace. A lei, era stato affidato un compito immane, cambiare il corso della storia. Alla fine però si è dimostrata fragile e facilmente manovrabile, troppo condizionata dalla vecchia casta che orbita nella sfera di Pechino. L’aver abbandonato quella che appariva come l’unica vera opzione politica spendibile, l’introduzione di un sistema federale, è stato forse il maggior errore politico commesso.

A pesare nei rapporti di forza è stato il veto dei vertici militari, aspramente contrari a qualsiasi concessione apparisse come una minaccia all’unità nazionale. Non aver preso una netta posizione di critica sulla questione delle violenze nei confronti della comunità musulmana Rohingya ha ben presto oscurato la sua immagine internazionale. Dalle contestazioni, alle onorificenze ritirate, sino allo spettro dell’accusa di genocidio.

Nonostante i fallimenti il consigliere di stato San Suu Kyi, che non può per legge ricoprire la carica di premier, ha nuovamente portato alla vittoria elettorale il suo movimento. A novembre 2020, in piena ondata pandemica, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) ha ottenuto un plebiscito nelle urne. Il partito dell’esercito ha trumpianamente invocato “brogli” nei seggi, non riconoscendo l’esito finale. E così San Suu Kyi è ancora una volta tornata ad essere una vittima. Mentre sale la voce di condanna per il colpo di stato la Cina tace. Come se la cosa non fosse d’interesse, invece, lo è parecchio.

Foto: Aung San Suu Kyi

Alfredo De Girolamo  Enrico Catassi

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