Chi è Marco Sforza?
Oggi sulla mia carta d’identità, alla voce professione, c’è scritto “cantautore”. Questo per farti capire quanto la mia vita sia dedicata profondamente alla musica, nonostante non campi totalmente di questo e faccia anche un altro lavoro. A chi ancora non mi conosce, consiglierei semplicemente di ascoltare le mie canzoni. Lì dentro metto tutto quello che sono stato e che sono ora. Scrivo e canto della mia terra, delle mie esperienze vissute, delle persone che mi affascinano, del mio sguardo sul mondo. Nelle mie canzoni non fingo, sono e sarò sempre onestamente spietato con me stesso. Forse a volte tendo a romanzare, ma in ognuna di esse c’è qualcosa di me: i miei sentimenti, le mie emozioni, le mie paure, tutto. Oserei dire (mi si passi l’espressione da “istrione”) che Marco Sforza è le sue canzoni.
Che tipo di formazione hai? Studi, letture, mentori.
Ho un bel diploma di maturità, conseguito in una scuola professionale. Sulla carta sarei un “operatore per le telecomunicazioni”, ma son durato poco, tra cantieri e lavori stagionali, con grande dispiacere dei miei genitori. Finiti gli studi e tuffandomi nel mondo del lavoro, ho capito man mano che la rotta dell’anima mi portava da un’altra parte. Ho iniziato a studiare pianoforte in una scuola privata e la chitarra ho imparato a suonarla da solo. E, nel contempo, per contrastare la mia balbuzie, che in età adolescenziale è una vera rogna, ho scoperto che cantando non balbettavo più. Così nella mia cameretta passavo pomeriggi a scrivere e musicare frasi dedicate a ragazze di cui ero cotto, immaginando il giorno in cui mi sarei esibito per loro in una struggente serenata. Tutto questo non è mai accaduto, per fortuna o per sfortuna non lo so, ma nonostante tutto ho deciso con coraggio e tanta faccia tosta che la musica doveva essere la mia priorità. Era diventata un’esigenza tirar fuori qualcosa da dentro di me. Esternare le mie emozioni attraverso la musica era è ed è la cosa che mi riesce meglio nella vita. Poi col passare del tempo posso dire di essermi fatto le ossa sul campo. Ho avuto un imprinting solitario e molto personale per quanto riguarda l’Arte in generale. Mi sento come una spugna in questo senso, assorbo tutto, dall’opera celebre da museo a quella semisconosciuta. Sono attratto dal processo creativo in tutte le sue forme e la musica naturalmente è quella che mi tocca più di dentro. Ascolto di tutto, sono un onnivoro: dal blues al jazz, dal liscio alla classica, dalla musica etnica e folk-popolare al rock in tutte le sue forme. Penso che la musica abbia una potenza, un quid che le altre arti non hanno, perché riesce a far vibrare l’Io di ognuno di noi, è qualcosa di così ancestrale e indefinito che riusciamo a percepire ogni qualvolta ascoltiamo una melodia o un ritmo. È come una chiave che riesce ad aprire le nostre porte più intime e profonde. Riguardo alle letture, mi rimando alla domanda successiva. Invece, se devo parlare di mentori, è naturale che mi prostri ai nostri egregi cantautori italiani e non. A parte la reverenza verso Van Morrison e tutta la sua sterminata discografia, i nostri cantori li ho ascoltati, assimilati, studiati e continuo tutt’ora a godere dei loro capolavori. Ho i miei prediletti: Giorgio Conte, Gianmaria Testa, Gaber, Dalla, De Andrè, Jannacci, Fossati… Insomma, potrei citarne tanti altri, ma sicuramente da quelli sopracitati ho inconsapevolmente e inevitabilmente rubato qualcosa. Si dice da anni che ormai la forma-canzone è finita, che ogni strada o miscuglio di generi è stato creato. Io penso che la differenza sostanziale e intellettuale non stia in ciò che fai, ma nel come lo fai, cioè come la tua originalità e unicità prevalga e renda inconfondibile la tua opera.
Gianni Celati, a suo tempo, scrisse Narratori delle pianure, un bellissimo libro di trenta novelle fantastiche, comiche, tristi o terribili. Italo Calvino, nel presentarlo, disse che Narratori delle pianure ha al suo centro la “rappresentazione del mondo visibile”, dunque le cose, il toccare con mano, potremmo anche dire lo sfrucugliare (che non so che cosa sia) nella vita accanto al Grande fiume, il Po. Ecco, non pensi anche tu che Marco Sforza sia un narratore delle pianure?
Se non ricordo male, è il primo libro di Celati che ho letto e poi riletto più volte, per poi dedicarmi a tutti gli altri suoi libri. Allo stesso tempo le mie letture “formative” nascono da una profonda fascinazioni per i raccontatori di storie. Per esempio, un libro come “Casa d’altri” di Silvio d’Arzo è una carezza al cuore. Adoro Buzzati, Vassalli, Moresco, Baricco fino agli scrittori “nostrani” a me più cari, da Malerba a Cavazzoni, da Pederiali a Ugo Cornia, passando da Benati, Zavattini, Tondelli e Nori. Il fatto che tu abbia messo nella stessa definizione il nome di Celati e il mio mi lusinga e forse mi ripaga un po’ di quell’attaccamento viscerale che ho per la mia terra, la Pianura. Mi chiedi se penso di essere un narratore delle pianure, io ti rispondo di sì. Certo, ci son nato qui ed è facile per me raccontare ed essere un anfitrione del mio quieto vivere, scandito dal tempo lento di questa terra. Penso però che, oltre a nascere in un posto, per capirlo questo posto va anche cercato, trovato, ma la cosa più difficile e più affascinante è che per capirlo veramente, in questo luogo devi perderti. Celati ha fatto del “perdersi” uno stile di vita. Lui camminava per ore, senza mete precise. Parlava con la gente, la sua gente, la nostra. Scriveva del mondo visibile è vero, del quotidiano ma in realtà, per come la vedo io, dentro questo mondo visibile c’era tutto un mondo dentro, quello vero e segreto, quello che palpita, lui con i suoi libri è riuscito a farci vedere un mondo che non c’è. Ed io ho fatto mia questa filosofia di vita. Ho scritto una canzone “Voci di Pianura” che parla proprio di questo: “la pianura è un illusione, un gioco di prestigio, non c’è niente da capire in questo immobile infinito. La pianura è una bocca, un grido senza voce Al di là dell’orizzonte ci resta solo da guardare”. Uno sguardo diverso, una prospettiva interiore. Non esiste solo l’orizzonte piatto dei campi sterminati, esiste anche l’orizzonte verticale, quello che non si vede, ma è intrinseco ed è vivo dentro di noi e ci parla, se sappiamo ascoltare. Molte persone si annoierebbero davanti a un casolare sperduto e abbandonato, io starei per ore ad ammirarlo immaginando storie, vite, esistenze passate. Conosco persone che pensano che le foto di Ghirri, per esempio, siano fredde e inutili; non hanno capito nulla della Pianura e nemmeno di Campegine, il mio paese natale, che è “àl pòst più bel dàl mònd”.
Ho già visto diversi tuoi concerti-spettacolo e ciò che mi piace di te è la tua capacità di creare dei mondi attorno alle persone che ti ascoltano. Ecco, qui la domanda non c’è, ma dimmi lo stesso qualcosa in merito.
Io lo chiamo il mondo Sforzesco (e forse farà sorridere questa autocelebrazione). In realtà nella tua frase c’è già la risposta. Se tu vedi o anche immagini un mondo quando assisti ai miei spettacoli, per me è bellissimo ed appagante, perché significa che qualcosa di mio è anche tuo. Posso solo dirti che mi viene naturale cantare in un certo modo, dire le cose in un certo modo, io sono cosi. Toglimi la chitarra e ti dirò le stesse cose allo tesso modo, sicuramente più impacciato e insicuro, ma cambierà poco. Sono lo stesso melanconico buffone sia su che giù da un palcoscenico. Forse è un po’ questo il mio segreto, quello di catturare il pubblico e invitarlo nel mio mondo, di essere me stesso sempre senza sentirmi Dio solo perché ho un microfono davanti. Mi piace raccontare, affabulare, non riuscirei proprio a fare un concerto cantando soltanto. Ho bisogno di un feedback, di un contatto, ho bisogno di vita. Per me questo è l’essenziale.
L’ironia, a che cosa serve l’ironia, tu che ne sei un ghiotto cantore?
Hai scritto bene, l’ironia è un affare culinario e da sempre ne vado ghiotto. Il fatto è che l’ironia, e soprattutto l’autoironia salvano la nostra esistenza. Il sarcasmo, la satira, la battuta macabra, la presa in giro, lo sberleffo, fatto coi tempi e i modi giusti, tutte queste cose aiutano a superare qualsiasi problema e a sopravvivere nella schiuma dei giorni del nostro mare quotidiano. Uso l’ironia nei miei testi da sempre e continuerò a farlo. Adoro la provocazione, i giochi di parole, il doppio senso, tutti ingredienti speciali da usare con cura e intelligenza. Una mia canzone “Il musicista” è nel testo e soprattutto musicalmente una presa in giro a tutti quei musicisti che danno sfoggio delle loro doti tecniche ogni qualvolta si presenti l’occasione: gli “sboroni” dello strumento, li chiamo io. Anche “L’Emilia che canta” è un’altra canzone-divertissement, in cui descrivo i nostri cantori e cantrici in un modo allegorico e spavaldamente malizioso. È indispensabile per me usare l’ironia come invito a conoscere il mio mondo musicale. Oltretutto è parte integrante della mia personalità. Fondamentalmente sono un timido, un introverso, avere troppa gente intorno mi destabilizza. Sembra un controsenso, ma è cosi. Sul palco riesco a trovare il coraggio di raccontarmi attraverso le canzoni proprio perché la mia autoironia mi aiuta a superare queste paure. Ho capito che metterle in mostra e non nasconderle è un modo efficace per esorcizzarle. Spesso e volentieri concludo i miei concerti dicendo: “…se il concerto vi è piaciuto potete ritornare, se invece è stato un obbrobrio potete comunque ritornare per avere la conferma che Marco Sforza fa proprio cagare”….
E poi Elisa, cioè Elisa Lolli, se non sbaglio tua compagna nella vita e tua compagna sul palcoscenico. Che cosa mi dici in proposito?
Elisa è una forza della natura, la persona più sensibile che abbia mai incontrato. Il destino ha voluto farci conoscere e io gliene sono infinitamente grato. Lei è una professionista vera e sincera: oltre ad essere un’eccelsa e talentuosa attrice, autrice e regista, è una rinomata insegnante di recitazione e improvvisazione. Il nostro sodalizio è nato veramente per caso: a farci conoscere fu la Compagnia Teatrale Mamimò, presso la quale già io ero musicista di compagnia ed Elisa era, ed è tuttora, docente in diversi corsi e progetti per le scuole. Ci avevano commissionato una piccola performance di teatro-canzone per una rievocazione storica poi, si sa, da cosa nasce cosa e dopo un anno eravamo già in tournée con “La Pianura è un Foglio Bianco”, uno spettacolo tragicomico di teatro-canzone sulla nostra terra, la Bassa emiliana. Questo spettacolo oggi, che dopo quattro anni ha all’attivo più di cento di repliche, è ancora molto richiesto e questo ci inorgoglisce e rende felici. Il nostro legame sentimentale e il nostro sodalizio artistico si rinforzano e alimentano a vicenda, giorno dopo giorno, e ci danno forza ed entusiasmo nell’andare avanti, nella vita e nell’arte. Entrambi possiamo attingere l’uno dall’altro: siamo colleghi, complici, amanti, amici, reciproca fonte di ispirazione. Abbiamo anche fondato una piccola compagnia di teatro e l’abbiamo chiamata “BALENATI- Artisti alla deriva”. Ci divertiamo insieme e penso che sia la cosa più importante di tutte. Noi sul palco abbiamo la stessa sintonia che abbiamo a casa e questo penso che il pubblico lo percepisca sempre e che sia quel quid che ci rende credibili e divertenti . Cosi nasce una piccola magia.
Alla fine della fiera, qual è la poetica di Marco Sforza?
Sono andato su Google per leggere il significato di “poetica” perché avevo un dubbio. Ora che l’ho letto il dubbio è rimasto, ma con l’aggiunta di lacune da liceo classico che non ho fatto. Potrei dirti che la mia poetica forse è un insieme di cose, ma credo che la risposta più esatta sia che è una coesistenza di opposti, come far ridere e piangere nella stessa canzone. Gaber in questo era un maestro. Nei suoi monologhi, nelle sue canzoni, c’è sempre un’evoluzione, un processo. Penso che le canzoni spesso siano come gli aeroplani: a volte decollano e fanno un viaggio stupendo nel cielo e continuano a volare senza atterrare mai; altre volte precipitano rovinosamente e poi son dolori, per l’animo s’intende. Ecco, potrei definirmi un pilota: le canzoni posso decidere io come farle volare. La verità è che sono un cane sciolto, un outsider. Non ho ancora un’etichetta che mi supporti, e forse mai l’avrò, perché non ho regole di marketing da seguire. Ho la libertà di scegliere dove andare, che parole usare, che tipo di ritmo o genere fare. Non mi precludo nessuna possibilità nella musica e amo la libertà di espressione. Ho scritto canzoni che parlano di temi scottanti, attuali, con un ritmo swing e allegro, come “La generalista”. Il nuovo singolo dal titolo “La rossa ardita”, che uscirà a marzo/aprile, racconta del declino dei circoli Arci e dei fasti politici rossi delle generazioni passate, e ha un ritmo di polka alla vecchia maniera. Qui c’è una frase che dice: “non ti devi preoccupare, c’è tanta gente come te che ha sul petto un Che Guevara, e si credon chissà che. Per cambiare le coscienze qui ci vuole un ideale, per aver diritto di cantare il 25 aprile”. Penso che la mia di poetica sia dunque una libertà di direzione: l’importante è vestirsi di un valore e credere totalmente in quello che si dice, nel mio caso in quello che si canta. Non saprei fare altrimenti. Ho avuto parecchie soddisfazioni e gratificazioni da questo mio viaggio artistico e tuttora continuo a sorprendermi di quante persone appassionate al mio fare musica ci siano. Se vent’anni fa qualcuno mi avesse detto che nella mia vita avrei partecipato a rinomati festival, vinto importanti premi dedicati alla canzone d’autore, collaborato con eccelsi artisti, cantato le mie canzoni in teatri famosi, gli avrei riso in faccia. Fare le cose con onestà e sincerità d’animo ripaga e sempre ripagherà.
Qual è il tuo più grande sogno?
Che un giorno mi venga intitolata una via o una piazza. (Il solo pensiero mi fa sorridere dentro).
Qual è la tua più grande paura?
Due cose forse: la morte in primis. In realtà ne sono anche affascinato, non perché io desideri morir presto, ma per quella sana curiosità esoterica di sapere cosa c’è dopo, che mi aiuta a vivere questa vita in maniera sobria e con tragicomica malinconia. Questo pensiero però presuppone che anche da morto io riesca a sapere la risposta: ecco, questo dimostra ancora una volta che la vita è un fottuto cortocircuito. Forse era meglio continuare a fare l’elettricista…. Per raccontare la mia seconda paura, ed è quella che più mi tocca nel vivo, devo parlarti di Gianmaria Testa. Anni fa andai a Verrucchio a un suo concerto. Era uno dei primi a cui assistevo e, come sempre accompagnato dalla mia ingenua spavalderia, portai con me un cd dei miei primi provini con l’intento di consegnarglielo e avere magari un suo giudizio. Il concerto era in teatro alla sera, ma già dalle 17:00 ero a vagare in quel di Verrucchio, sfumacchiando sigari tra un caffè e l’altro, ripensando ad una frase ad hoc per la consegna della demo. Verso le 19, nel mio vagabondare per il centro storico, capito proprio nel parcheggio del teatro e d’improvviso arriva una Mercedes, si accosta a me, il finestrino si abbassa e un signore coi baffi e gli occhiali da sole mi chiede dov’è il teatro. Era Gianmaria Testa. Di getto, senza pensarci, con assoluta naturalezza, gli rispondo: “Ciao Gianmaria.. sì, il teatro è qui dietro… senti, ho un cd da darti.” Notando un leggero imbarazzo dell’autista, smorzato da un impercettibile sorriso, mi rendo conto di esser stato un poco impertinente. Insomma, per farla breve, dopo che il cantautore-ferroviere ha parcheggiato, ci scambiamo due parole di commiato, gli do il cd e lo saluto sulla via del teatro.
Fu un bellissimo concerto e nella notte, ritornando verso casa, la mia colonna sonora era scandita da una sola domanda: …“Ascolterà il mio cd??”. Passarono settimane poi arrivò una risposta che ancora conservo. All’epoca non c’era Facebook ma MySpace e mi rispose sul mio profilo personale. Con la delicatezza che contraddistingue le persone per bene, mi scrisse che le melodie erano originali, non scontate, ma sui testi c’era da lavorare ancora un po’… nulla di più vero aggiungo. Poi il messaggio finiva con questa frase:“…che la fiammella che hai dentro continui a bruciare, che ogni parola che scrivi sia vestita di una vera e tua onestà intellettuale e che non si spenga mai…” . Ecco, questa è la mia più grande paura: non aver più nulla da dire, da raccontare, attraverso le mie canzoni. Prima o poi arriverà quel momento o magari no, chi lo sa. Io spero con tutto il cuore che se dovesse succedere, avvenga il più tardi possibile.
Che cosa vorresti lasciare dopo la tua morte?
Un sorriso e una canzone.
FINE
Marco Sforza è emiliano. Dalla sua regione si porta appresso una convivialità semplice, da grande tavolata e tanti commensali. Ci indovini l’odore dei tortelli nel brodo di carne e il gusto d’un Lambrusco frizzante, mai troppo amabile. Quando canta un po’ ti gioca con la voce in cerca di melodie, un po’ strizza l’occhio al suo pubblico con guizzi di comico. Cerca la complicità di chi lo ascolta, ma ama l’effetto teatrale, la battuta sagace, il gesto che susciti il riso e la simpatia. Della musica, quando la ascolti con un po’ di attenzione, ti colpisce il suo essere nell’ambiente, parte di una conversazione garbata tra il solista ed il suo pubblico. Lo senti che la voce stabilisce un dialogo, si crea il suo spazio d’ascolto con la gentilezza del testo e le note della musica.
Ti colpisce la sua aura nostalgica che cerca la poesia dei grandi cantautori in brani che non strepitano e non gridano, ma hanno la sapienza ispida di una ballata che usa
una voce sola per esprimere le idee di un coro.
Un po’ Jannacci, un po’ Vecchioni, Sforza gioca al cantautore d’un tempo, di quelli che gli bastano due arpeggi di chitarra e un tocco di blue per schiuderti un mondo di pensiero. Ti parla dell’oggi con una certa immediatezza, cercando il dettaglio acuminato che è un po’ politico senza farsi militante. Le sue son canzoni che seminano ironia e disincanto nello stesso tempo coniugando folklore popolare e chanson alla francese con amena e gustosissima spensieratezza.
Biografia
Nato nel 1981 in quel di Reggio Emilia. Un istrione votato alla musica cantautorale, un cantastorie dallo spiccato senso del humor e dalla sincera musicalità. Pianista virtuoso, chitarrista beffardo.
Nel 2018 viene premiata la sua canzone “l’Emilia che Canta” come miglior testo al PREMIO LA VIA EMILIA DEI CANTAUTORI”.
Insieme alla sua compagna e attrice Elisa Lolli da tre anni portano in giro uno spettacolo di teatro/canzone dedicato alla bassa emiliana: “La Pianura è un Foglio Bianco”. Le canzoni dello spettacolo sono inserite nell’ultimo album “NAIF” uscito nel dicembre dello stesso anno. Nel 2017 registra “SUONARE BARGIONI/SFORZA”, brani inediti con il suo amico cantautore Dado Bargioni. Il singolo “Mo better Blues” è inserito nella fiction di Rai1 “Tutto può succedere”. Insieme al M° Gildo Montanari, eccelso fisarmonicista romagnolo, nell’estate del 2013 forma il “Duo Mezza Pensione” con cui parteciperà al FOLKEST 2015. Un progetto originale in cui si coniuga folklore popolare e teatro-canzone.
Selezionato dal Club Tenco a partecipare alla rassegna il “Tenco Ascolta 2011”. dedicata ai giovani cantautori esordienti.
Ha scritto colonne sonore per diversi e importanti cortometraggi di registi emiliani e collabora stabilmente con il Centro Teatrale Mamimò a Reggio Emilia. Vincitore di diversi festival e concorsi musicali nazionali tra cui l’ultimo PREMIO PIGRO 2010 in ricordo di Ivan Graziani. Nel 2009 si aggiudica il premio Augusto Daolio e nello stesso anno il Contest nazionale City Music Lab. Più di 350 concerti all’attivo in diverse località della penisola tra cui a Bologna al Roxy Bar e a Roma all’Auditorium della Musica.
Aperture di concerti de i NOMADI, ANDREA MINGARDI, GIORGIO CONTE, NINA ZILLI, DENTE, BEPPE VOLTARELLI, NOBRAINO, FILIPPO GRAZIANI, MERCANTI DI LIQUORI.
Discografia
“LAIV” al Materia Off (2008)
“Bocce” EP (2011)
“Un Capolavoro” (2013)
“Menù fisso” Duo Mezza Pensione (2014)
“Suonare Bargioni/Sforza” (2016)
“Naif” (2018)
Progetti UNA TANTUM
Autoproduzioni saltuarie di canzoni singole e rispettivi videoclip.
“Italia Divina Commedia” (2020)
“L’ultima corda” (2021)
“Due Cuori” (2022)
Sitografia
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