Il Maestro Lorenzo Fratini, aplomb e understatement di stampo British, che ha assunto il prestigioso incarico giusto un mese fa, è da tempo direttore di fama e il suo arrivo a Firenze è l’ultima tappa di una carriera in Teatri di tradizione, ultimo dei quali il Teatro Comunale di Bologna. “Il mio primo approccio con la musica corale è stato a 17 anni, con Roberto Gabbiani” dice ricordando gli anni della formazione. Seguono poi gli studi in Conservatorio e uno stuolo di Diplomi: composizione, composizione polifonica vocale, canto, musicale corale e direzione di coro, e inaspettatamente, clarinetto. E nel contempo tanta gavetta. “Soprattutto sul territorio, – afferma – dalla Scuola di Musica di Sesto Fiorentino alla corale Guido Monaco di Prato, sua città natale, ai tanti cori amatoriali di Firenze e dintorni”.
Qual è stato il primo incarico in un grande Teatro?
“La prima chiamata importante è stata al Carlo Felice di Genova. Fu proprio Alberto Triola, allora direttore artistico del teatro, che mi segnalò a Daniel Oren proponendomi la direzione del coro del Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste dove sono rimasto per sette anni, fino al 2010. L’ultima tappa è stata Bologna. E mi rammarico di aver lasciato un teatro senza aver finito il lavoro che mi ero prefissato di compiere e con un coro col quale avevo rapporti eccellenti. Ma Firenze era un po’ la tappa finale di questo avvicinamento, e certi treni non partono tutti i giorni…
Lunedì scorso c’è stata l’inaugurazione del Don Giovanni di Mozart. La sua prima volta col Coro del Maggio. Come mai non è salito sul palco insieme al Maestro Mehta?
“Perché nel Don Giovanni il coro ha un ruolo marginale. Una volta, a Trieste, Daniel Oren mi convinse ad andare sul palcoscenico senza il coro. In quell’occasione la regia dell’opera non era stata molto apprezzata, caso volle che quando uscii sul palco per il consueto ringraziamento, il pubblico cominciò a fischiare pensando che fossi il regista. Bisogna essere tutti insieme e a me fa piacere ringraziare il pubblico con il coro accanto”.
In quale maniera vi state preparando al nuovo appuntamento in Stagione, l’esecuzione dei Carmina Burana di Carl Orff in programma il prossimo venerdì 8 febbraio al Mandela Forum con la direzione di Zubin Mehta, e la regia di Carlus Padrissa della Fura dels Baus?
“È un’opera impegnativa con l’organico pieno dei 98 componenti del coro. Stiamo lavorando bene e anche la prova con il maestro Mehta ha dato buoni risultati. Lo spettacolo è molto complesso e il coro è inserito in un allestimento particolare, curato nei minimi particolari dalla Fura dels Baus che ha ideato la regia. Ci sono azioni in forma semi-scenica con delle luci che il coro sposterà per ottenere degli effetti ottici, addirittura, ad un certo punto, l’ambiente si riempirà di profumo, spruzzato dal coro. C’è anche una vasca – come quella delle Ondine nell’Oro del Reno- dove sono immersi i cantanti. Molti sono gli effetti scenici: il cigno arrostito canta su un girarrosto sospeso a cinque metri d’altezza e l’orchestra è attorniata da un cilindro sul quale vengono proiettate immagini in movimento. È uno spettacolo molto evocativo”.
Lei è arrivato a Firenze in un momento molto delicato della vita del Teatro.
Devo dire che questa contingenza non influisce sul nostro lavoro. Per me c’è una separazione tra la gestione amministrativa del Teatro a quello che è il suo percorso artistico. Quando si lavora i problemi rimangono fuori dalla porta. Sono qui da un mese ed il lavoro è stato molto proficuo, non solo dal punto di vista artistico ma anche a livello di relazioni personali. Per un direttore è molto importante il rapporto che si costruisce quotidianamente con i componenti del coro.
Per usare una metafora, lei è più per il partito del bastone o per quello della carota?
Il maestro del coro non deve essere autoritario ma autorevole, altrimenti il rapporto si logora molto rapidamente, occorre una stima reciproca che porta alle condizioni migliori. La forza più grande è quella di riconoscere i proprio errori. Siamo esseri umani, è impossibile non compierne.
C’è un repertorio che predilige?
Antonino Votto, il maestro di Riccardo Muti rispondeva a questa domanda citando volta per volta le opere che stava affrontando. Potrei parafrasare dicendo che il mio repertorio preferito è quello che sto eseguendo nel momento in cui mi viene posta la domanda. Certo i miei studi si sono anche molto indirizzati nella prassi della musica antica. Qui a Firenze ho la fortuna di avere un coro che esegue sia il repertorio sinfonico che l’opera. C’è un equilibrio tra i due repertori e a me piacerebbe potenziare questa specificità.
C’è qualcuno a cui vorrebbe assomigliare, che è un punto di riferimento artistico?
A Trieste, all’indomani del mio debutto, un critico musicale scrisse “Questo maestro il cui gesto ci ricorda quello di Gabbiani e Benaglio”.