Mozart all’Opera di Firenze: un Flauto senza magia

Firenze – Non fosse stato per la musica di Mozart, la bravura dei cantanti e i cinque piccoli papagheni che scorrazzano sul palcoscenico, l’allestimento del Flauto Magico della Fenice presentato all’Opera di Firenze in questi giorni sarebbe sicuramente da bocciare. E tuttavia proprio i tre motivi che lo salvano lo possono anche giustificare. Andando in sicurezza con compositore e interpreti si può anche sperimentare. Anzi, forse si devono cercare altre vie per cercare sempre nuove chiavi di interpretazione, sempre nuovi interventi creativi per corrispondere maggiormente a ciò che chiede la sensibilità contemporanea.

Proprio per questo motivo è anche giusto dire quello che non va del Flauto Magico messo in scena da Damiano Michieletto, con le scene di Carlo Pantin e i costumi di Carla Teti. Il tentativo del regista è stato quello di estrarre dal libretto di Emanuel Schikaneder il carattere didascalico/pedagogico implicito nella favola del principe Tamino, della Regina della Notte, di Sarastro e di Pamina e di averlo esplicitato realisticamente sulla scena.

Dove si educano i ragazzi, dove si avviano alla vita, ai suoi valori e alle sue sofferenze? Nella scuola. Così l’azione si svolge in una dimessa aula scolastica e in un’epoca non ben precisata, con costumi e metodi pedagogici che sembrano riferirsi all’inizio del secolo scorso. Tamino è il ragazzo prima in crisi, poi prescelto a salire nell’empireo della conoscenza; la regina della Notte è una nevrotica repressiva, Sarastro un preside illuminato. E Papageno? Un bidello, neanche troppo giovane.

Proprio nel Vogelfaenger si concentra tutta la debolezza del concetto interpretativo di Michieletto. Papageno non è solo un personaggio di classe inferiore rispetto a quella di Tamino: è soprattutto ingenuità, felicità e libertà di vivere, tradizione e semplicità. Tutto diverso dal bidello di una scuola il cui ruolo è quello di eseguire gli ordini repressivi di un sistema scolastico autoritario. Potenzialmente un gregario cinico.

Scelta comunque questa linea, il regista ha poi sudato sette camicie per rendere coerente tutto lo svolgimento della storia, riuscendoci raramente. Questo non  significa che tutto debba sempre restare nel solco della tradizione e che la messinscena debba corrispondere alle indicazioni e alle parole del libretto. Bisogna però pretendere che l’impostazione sostenga in modo convincente la dinamica narrativa dell’opera. Perché, ecco un altro esempio, le tre dame della Regina della Notte erano vestite da suore? Perché “Tamino e Pamina vivono il conflitto tra l’istruzione religiosa e quella laica, riassunto nella dicotomia conflittuale tra la Regina e Sarastro”, scrive Michieletto nelle sue note di regia.

Un concetto interessante che però è del tutto astratto e complica inutilmente situazioni drammatiche che Schikaneder voleva semplicemente riferire a un eterno femminino dotato di grande generosità, ma anche di gelosie, possessività nonché di suggestione amorosa.

Ci sono altre cose che non funzionano come il fatto che il flauto magico diventa un attrezzo del tutto secondario, quasi imbarazzante rispetto al concetto generale. Invece dà il titolo all’opera perché è lo strumento – intuizione, cuore e sentimento – che permette all’essere umano di entrare in armonia con se stesso e con la natura, al punto di ammansire le bestie feroci. Lo è in tutte le mitologie, antiche e moderne.

Nel secondo atto, improvvisamente, le cose funzionano meglio. Lo spettatore dimentica le sovrastrutture cerebrali e riesce a godere della musica di Mozart senza distrazioni. Anche perché a Michieletto viene l’idea geniale di far uscire da un armadio, uno dopo l’altro e di corsa,  i cinque piccoli papagheni evocati dalla coppia finalmente unita. Il pubblico ne è rimasto deliziato tributando alla fine applausi meritati per tutti. Soprattutto dai cantanti, dal direttore Roland Boer, dal coro e da quei tre ragazzi (solisti del Muenchner Knabenghor) che assistono gli iniziandi nelle loro prove per raggiungere la luce della saggezza.

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