Morire a Gaza senza sapere perché

Pisa – Ventidue giorni di guerra. In Terra Santa è orrore. A Roma, nell’aula della Camera, il Ministro Federica Mogherini lancia un accorato appello: “Non dobbiamo decidere da che parte stare, essere amici degli israeliani o dei palestinesi. Il nostro ruolo non è entrare in questo conflitto, ma fermarlo….la mia generazione aveva sperato di poter vedere una stagione di riconoscimento e rispetto reciproco, di pace. Oggi siamo lontanissimi da quella speranza”.

Speranza che un’intera generazione aveva magistralmente messo in musica e portato nei cortei, Bob Dylan accompagnato da armonica e chitarra acustica cantava: “Quante volte un uomo deve guardare verso l’alto prima che riesca a vedere il cielo? Sì, e quante orecchie deve avere un uomo prima che possa ascoltare la gente piangere? Sì, e quante morti ci vorranno perchè egli sappia che troppe persone sono morte? La risposta, amico, sta soffiando nel vento …. the answer is blowin’ in the wind”.

Correva il 1963, Blowin’ in the wind canzone di protesta contro la guerra, contro tutte le guerre. Erano gli anni ’60 e il movimento pacifista diventava globale. Nei campus universitari americani come nelle aule italiane, nelle fabbriche e nelle piazze nascevano i figli dei fiori. Lo slogan era fate l’amore non la guerra. Oggi la protesta è cambiata radicalmente, assistiamo a manifestazioni che sempre più spesso sfociano in scontri violenti, c’è un diffuso e pericoloso rigurgito antisemita, la contrapposizione tra le parti è netta, non c’è possibilità di dialogo: indubbiamente è venuto meno il ruolo politico dei grandi partiti di massa e la sinistra ha, con il tempo, lentamente abbandonato la guida dei movimenti pacifisti.

Oggi la guerra è materia interamente pertinente alla diplomazia internazionale e il risultato, come potete notare, è assai deludente. Alla luce di quanto accade sarebbe quindi opportuno riflettere sulla risposta da dare. Eh sì perché il cielo sopra la Terra Santa non è una cupola celeste dove volano colombe e gabbiani ma il teatro di morte, è un cielo dove passano sfrecciando armi di distruzione, dove le luci dei fuochi illuminano la notte.

Gaza ormai brucia, le fiamme e il fumo salgono in alto nel cielo. La centrale elettrica è stata bombardata, nella Striscia manca l’energia elettrica. Scarseggiano i viveri e i medicinali, come l’acqua, da giorni. La situazione è drammatica. Sono oltre 1100 i palestinesi uccisi in queste tre settimane di guerra, la maggioranza sono civili. I numeri della tragedia di Gaza ci dicono che oltre 210 mila persone hanno trovato rifugio nelle strutture delle Nazioni Unite, che 22 cliniche sono state danneggiate nei bombardamenti, che quasi 200 mila bambini palestinesi necessitano di supporto psicologico, che i feriti sono circa 7 mila e la metà sono donne e bambini.

Vivere o morire nel 2014 a Gaza. La paura della gente è ben sintetizzata in queste parole: “La cosa peggiore è quando realizzi che non c’è una logicità in questa guerra, quando ti rendi conto di essere capace di distinguere un attacco, di riconoscere all’istante il suono delle cannonate da quello dei missili. Oppure, quando tutta la famiglia è riunita nel salotto in attesa che la morte bussi alla tua porta. In quei momenti d’attesa una delle peggiori cose sono le domande che i tuoi figli ti fanno: sentirsi chiedere quando finirà tutto questo e sapere che non sei in grado di rispondere è avvilente.”

Chi parla è un padre di famiglia di Gaza intervistato da una troupe televisiva britannica. Sul fronte opposto, a pochi chilometri di distanza, in Israele sono 53 i morti, in maggioranza soldati. Sono migliaia le persone costrette ripetutamente durante il corso della giornata a cercare protezione nei rifugi, è la routine preceduta dal suono delle sirene. “Di anno in anno, da un’operazione militare all’altra, la linea rossa della nostra moralità è resa sempre più sottile”. A parlare è una donna israeliana, ex ufficiale. Un padre ed un ex soldatessa persone costrette ad essere nemici controvoglia, sono voci diverse, una parla in ebraico e l’altra in arabo, chiedono la medesima cosa: la fine della tragedia.

Alfredo De Girolamo       Enrico Catassi

Foto: caritasitaliana.it

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