Molière alla Pergola: solitudine di chi rifiuta la mediocrità

Firenze – Ci sono diverse chiavi di lettura del Misantropo di Molière. Si può tentare un’interpretazione del pensiero e delle scelte profonde di un genio letterario e teatrale, cercando di contestualizzarli nella sua biografia. Oppure ci si può proporre – restando comunque fedeli al suo messaggio artistico – di calare le elucubrazioni e le idiosincrasie di Alceste nella società contemporanea. Del resto era questo il compito che si era dato: scolpire in archetipi universale le miserie della natura umana.

Quest’ultima è la strada scelta da Nora Venturini per la messa in scena di uno dei capolavori di Jean Baptiste Poquelin dit Molière rappresentato la prima volta nel 1666 al Palais Royal.

Il Misantropo allestito per il Teatro della Toscana (ha esordito al Teatro Era prima di approdare alla Pergola) mette in primo piano soprattutto l’aspetto farsesco delle situazioni drammatiche giocato sui costumi disegnati da Marianna Carbone dall’epoca non bene identificabile e soprattutto sulla recitazione dal registro popolare fino al punto di accentuare toni e registri dal richiamo dialettale. Anche le musiche di Marco Schiavoni riflettono l’indeterminazione temporale.

Gli attori sono all’altezza delle richieste registiche, fra tutti Giulio Scarpati (Alceste) e Valeria Solarino (Celimene) e lo spettacolo ha ottenuto alla prima della Pergola, affollata di tanti ragazzi delle scuole, indiscusso successo.

Nelle scene di Luigi Ferrigno, la regista ha inserito numerose tracce del suo concetto interpretativo. Primo fra tutti lo specchio gigantesco (in parte offuscato) nel quale “possiamo ritrovarci e riconoscerci”, perché i personaggi della commedia sono “parodie attualissime dei vizi e dei difetti dell’alta società di ieri di oggi e di domani”, come scrive nelle sue note di regia.

Così come lo è l’intera messinscena, che fa intravedere dietro tende trasparenti un backstage dove gli attori si preparano prima di entrare in scena.  Ciò che si muove sul palcoscenico è la rappresentazione del teatrino della vita nella quale predominano ipocrisia, gelosia, vanità, avarizia e maldicenza. Dove dame e cavalieri si sentono vivi solo perché riescono a prevalere sugli altri con l’intrigo e l’adulazione.

Ce n’è uno che non si rassegna e cerca la coerenza a qualunque costo (perdere la causa, perdere gli amici, perdere l’amata) ed è condannato a restare solo come suggerisce la tenda finale che lascia Alceste solo sul palco.

La solitudine è la condanna inevitabile per chi non sta al gioco della società degli uomini. Ha ragione lui accettando stoicamente il destino che volontariamente si è scelto? La regista non si schiera: il suo obiettivo è quello di “castigare ridendo mores”, fondamento catartico della farsa.  Del resto lo stesso Molière aveva spiegato al re che  «Il compito della commedia è quello di correggere gli uomini divertendoli, presentando i vizi e i difetti in modo anche esagerato».

Tuttavia c’è qualcosa di più in quell’archetipo del misantropo che Molière scelse in un momento cruciale della sua vita (dopo la censura del Tartufo e del Don Giovanni e la crisi coniugale), quando sostanzialmente mostrandosi nudo e sofferente decise comunque di compiere fino in fondo la sua missione artistica.  Fino a morirne.

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