Medice, cura te ipsum (locuzione latina d’incerta origine, ripresa nel Vangelo di Luca)
Ma ‘ndo vai se il green pass non ce l’hai… rielaborazione medica e medicea dal duo Sordi/Vitti
Assaporando i guizzi letterari di Ciro Piccinini, nel multiforme di genere ed elegantissimo suo ultimo libro, preda di fama per ora sottaciuta per volontà medesima dell’autore, al secolo il “L’ebbrosario”, m’è inevitabilmente sovvenuto il super tomo segna ‘900 “La montagna incantata” di Thomas Mann. Che narra, in estrema sintesi nonché semplificatoria, i 7 anni di vita sospesa dell’amburghese Hans Castorp nel sanatorio di Davos sulle Alpi svizzere. Quasi un’autoreclusione, lassù dove gli orologi non osano muovere le lancette, per l’ipotetica insorgenza di una (sua presunta) malattia, la tubercolosi. Un buen retiro a mo’ di lazzaretto popolato e animato, specie dialetticamente, dai fenotipi della varia umanità fin de siècle.
Già l’ambientazione a Davos, teatro nel ’29 di una disputa storica tra Cassirer ed Heidegger (fresco di “Essere e tempo”), dovrebbe far suonare le campane critiche sul territorio a noi più consono e opportuno, dell’originale rimario ospedaliero del Piccinini. Mentre sulla Montagna incantata del Mann la cura della “malattia del tempo”, la tubercolosi appunto, suona a pretesto per delineare e confrontare le principali appartenenze culturali di quel secolo spartiacque, nella pianura fatata del nostro, la zona ceramica reggiana perlopiù, “il tempo della malattia” (e in parte della guerra), recita a moderna scaturigine di un’operetta morale ed umorale destinata a curare, nelle intenzioni del primario della clinica scrittoria, credute patologie spirituali socioindotte dalle reali derive contemporanee.
D’altronde il “L’ebbrosario” racchiude in partenza, nello stesso titolo, una nitida indicazione di poetica. Piccinini, che ama definirsi “noeta”, creatore e giocoliere di parole in rima dunque ancor prima che astrattista di scenari emotivi (un procedere etico e d’etimo assorbito dalla decennale lettura e rifinitura dell’Heidegger di cui sopra), racchiude nel termine nosocomiale una quantità di parole (a seconda di come si legga e come si accendano le rispettive spie semantiche) che vanno dal melodramma leggero alla catarsi ironica. Cinquanta componimenti dubitativo-lenitivi del (e dal) mal di lockdown più o meno (auto)imposto, molti paradossalmente scritti o ideati in svariate località amene in cui l’autore ha sviluppato la sua peregrinatio ludico-intellettuale, anacoreta ridens della sottigliezza creativa (lui stesso mette a braccetto nell’ultima di copertina sì Asclepio ma pure l’oscuro ed iniziatico Eraclito…). Un vademecum filosofico ed esistenziale sull’esistente, l’ontologico, il resiliente, l’ironico ed il sapido suddiviso in Pharmakon, ovvero rituali espulsivi di capro espiatorio “maledetto” (col Piccinini si deve sempre andare all’origine del fonema), Polemos, componimenti riflessivi sulla guerra senza partigianeria, Parerga e paralipomena (citazione degli scritti minori di Schopenhauer). Redatti e impaginati con raro rigore metrico, visivo, sillabico ed allineatorio (forse aleatorio ma certosino e col cipiglio dei miniatori medievali da scriptorium conventuale).
Il L’ebbrosario in sostanza è un ricovero di stili, ciascuno curato per il paziente-lettore, nelle corsie più adatte a scovare la diagnosi corretta dei cangianti morbi d’epoca. Con una sola terapia possibile, la lettura salvifica e sanitaria dei bugiardini lirici a ristoro di anima e mente. La consapevolezza delle nostre solitudini di massa, nel vociare assordante delle parole insensate e della bulimia editoriale senza selezione, nella poesia essenzialmente filosofica del Piccinini (perché assai autoriflessiva), si ferma sulla soglia del nichilismo non-sense, diversi passi prima di una metafisica che non sfocia nel trascendente e di un’immanenza che non vira al relativo. Una precisa scelta di campo (e di foglio) etica ed estetica, rivelata nella prima pagina del libro, nel verso “…Sdraiarsi / soli nel diorama, stufi come sufi controluce al sole…”. Silloge tanatologica che non prepara al trapasso ma aiuta a vivere, anzi a guarire. E nell’esagerazione volontaria di immagini e lemmi a catena (come reazione nucleare) c’è una sola misura: “…questa luna in Saturno vuole tempi rivali, / il mio dito medio è grido d’aiuto eterno”. Perché dal mal di lettura (e di pensiero) non si deve fuggire e dall’eventuale vaccino rifuggire. Felicemente ammalati, sistematicamente ammaliati.
N.B. Venerdì 30 settembre riapre il sipario del De André di Casalgrande con uno spettacolo di poesia, musica e suggestioni oniriche dal titolo “Labbracadabra – Parole, suoni, incantesimi” (vedi foto sopra). Si inizia alle 20.45. Sul palco, fianco a fianco con gli spettatori, un quintetto di performer reggiani provenienti dalla zona ceramiche e dalla nostra montagna per la prima volta appassionatamente insieme, ovvero: Maurizio Casini alla narrazione, Faustino Stigliani alla voce, Ciro A. Piccinini al pianoforte, Daniele Moreschi all’arpa ed Ezio Bonicelli al violino. Sarà anche l’occasione per un anteprima (o un antedopo?) di lettura di alcuni brani del L’ebbrosario?