Counselor: miracolo al Tar

counselorPoi dice, non credo ai miracoli, sono un tipo razionale, se non tocco con mano non me ne occupo; concretezza soprattutto, andare camminare lavorare. Poi succede il Miracolo, e tutti sono pervasi da una luce di speranza, da un nuovo anelito verso il misterico, l’Oltre, e il dibattito infinito tra immanenza e trascendenza sfocia, mirabilmente, in un fatto che nessuno può né sa spiegarsi con i soli, poveri mezzi umani.

Il caso della settimana: il TAR del Lazio ha deliberato in soli 2 giorni, riunito il 16, sentenza il 18 di novembre, una cosa che neanche se trovi il maggiordomo col coltello ancora infilato nelle budella del padrone. Poi qualcuno dirà che quando ci sono potenti lobbies di mezzo tutto è possibile, ma noi che siamo inclini al senso del meraviglioso preferiamo credere nei miracoli. Il 16 di novembre il TAR del Lazio si riunisce per accogliere il ricorso dell’Ordine Nazionale degli Psicologi, CNOP, contro AssoCounseling, la maggiore associazione professionale di counselors italiana; il motivo del ricorso, gli psicologi (dei quali CNOP, strano a dirsi, rappresenta solo una minima parte) ritengono che i Counselors, novelli immigrati professionali, rubino loro il lavoro, mettendo le mani nella testa della gente per curarla da ansie e altre varie.

I Counselors ribadiscono che la loro professione, sebbene non regolamentata da un apposito Albo, è cosa del tutto differente e segue logiche distanti da quelle della terapia. Per fare questo, forniscono una definizione del proprio operato onesta ma, ritiene il TAR, un po’ generica: (…) attività il cui obiettivo è il miglioramento della qualità di vita del cliente, sostenendo i suoi punti di forza e le sue capacità di autodeterminazione.”. La sentenza, emessa dopo soli due giorni (poi dicono che in Italia la Giustizia è lenta) è seccamente a favore di CNOP; il Counseling è cosa riservata in maniera esclusiva agli psicologi, perché nel loro Albo c’è scritto che il loro lavoro consiste nella “(…) promozione dello sviluppo delle potenzialità di crescita individuale, di integrazione sociale, la facilitazione dei processi di comunicazione, il miglioramento della gestione dello stress e della qualità di vita”.

Pertanto, a partire da questa definizione ritenuta evidentemente non generica e molto ben delimitante, sappiate che dal 18 novembre dovrete essere iscritti all’Albo degli Psicologi per poter esercitare la professione di insegnante, educatore, formatore, consulente, trainer, badante, scrittore, e naturalmente seguire inclinazioni, destino e vocazioni genitoriali, amicali, sacerdotali e affini. Tutto questo, a partire da un Albo che è nato solo nel 1989 per volontà di una manciata di professionisti che, guarda il caso, erano perlopiù interessati al possibile sviluppo accademico dello stesso (leggi: docenti universitari desiderosi di pagarsi la villa con le nuove, obbligatorie Cattedre), dopo un lavorio ai fianchi di un politico anch’esso docente universitario (Ossicini) e la confusione, la negazione, finanche il rifiuto di tutti gli altri, tra i quali psicanalisti di un certo spesso, vedi Cesare Musatti.

La nascita dell’Albo vede una megasanatoria in cui rientrano letteralmente cani e porci in possesso di titoli di studio i più disparati, in grado di vantare una manciata di consulenze variamente declinate ed auto dichiarate e in possesso di preparazioni pressoché inesistenti nei tre quarti dei casi; è oggi lo stesso Albo che si mette in concorrenza protezionistica col resto del mondo, quello reale, nel momento in cui dichiara che un ragazzino fresco di minilaurea (puramente teorica e in moltissimi casi annacquata fino al paradossale) e con un po’ di tirocinio (sei mesi, variamente vissuti) ha più competenza ad ascoltare, seguire, sostenere un cliente (non un paziente, riservato per legge: un cliente, ossia fuor di terapia!) di un counselor che ha alle sue spalle 3 anni di corso spesso, dieci anni di aggiornamenti e una esperienza nel trattamento dell’altro continua e in costante sviluppo.

Naturalmente, molti psicologi cantano vittoria. I counselors ci rubano il lavoro, e ci sono già fin troppi psicologi in giro; oltretutto, la gente si sarebbe anche stufata di vedersi medicalizzare per qualsiasi aspetto della propria vita, quindi i clienti vengono sempre più di rado: la sentenza è una boccata d’aria. Una minoranza, peraltro piuttosto corposa, invece pensa che questo numero da baraccone sia la pietra tombale su di una professione per la quale ci sono sempre stati dubbi circa l’efficacia, l’indispensabilità e la determinatezza, e in odor di possibilissimo scioglimento degli Albi vissuti oggi più come corporativi che come effettive garanzie di professionalità sia stato un grave errore non interrogarsi sull’effettiva forza e credibilità professionale di un mestiere – che se deve essere difeso non già dal proprio valore intrinseco ma da una sentenza anche molto discutibile, non dà certo l’impressione di essere tanto in salute. Che poi l’impressione sia fondata o meno, che in molti casi la Legge 4/2013 abbia dato il via ad una serie di professionisti sedicenti tali che nulla hanno a che vedere col saper lavorare, è tutto discutibile e sacrosanto.

Fatto sta che oggi a suon di sentenze si sia arrivati a mettere in discussione ben tre professioni contemporaneamente: quella di Counselor, quella di Psicologo e quella di Giudice, mentre quelli che – in Italia a quanto pare è impossibile fare diversamente – operano in barba a qualsiasi regolamento e sotto traccia saranno non solo in grado di proseguire serenamente, ma addirittura di prosperare, confortati e giustificati da quanto appena visto.

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