Mikhail Gorbaciov, protesse il mondo dall’agonia dell’Urss

Si sapeva che era anziano e, da tempo, malato. Quasi dimenticato. Eppure, al momento dell’annuncio della scomparsa di Mikhail Gorbaciov, un’ondata di emozione si è istantaneamente diffusa. Sono riemerse alla mente immagini, parole, circostanze in cui è maturato un vero passaggio d’epoca. Perché questo ha rappresentato, Gorbaciov.

Un passaggio d’epoca. Repentino. Travolgente. Capace di cambiare, in un breve volgere di anni, mesi, giorni, i connotati politici, e gli equilibri, dell’Europa e del mondo. È stato l’ultimo esponente, e l’ultimo volto-simbolo, del regime sovietico. Di questa posizione e di questo ruolo ha portato con sé, e vissuto, tutte le contraddizioni. La sua intenzione era quella di aprire una strada nuova, ma il suo agire era gravato dal sospetto (che non fu semplice né immediato rimuovere) che tutto potesse ricondursi a puro imbellettamento delle vecchie logiche di potere. Ma Gorbaciov (che pure era, anche, un prodotto della «nomenklatura» di partito e che era stato voluto dal suo predecessore ed ex capo del Kgb, Andropov) faceva sul serio.

Capì che, in quelle società, andava fatta circolare, con urgenza, aria nuova. Nacquero da lì la «glasnost» (cioè, la trasparenza, la rimozione della censura e l’incoraggiamento della libertà di pensiero e di parola) e la «perestrojka» (un tentativo di riforma strutturale del sistema). Ci furono passaggi emozionanti che dettero il segno della portata del nuovo clima culturale e politico.  Anna Mikhailovna, vedova di Bucharin (grande collaboratore di Lenin e «figlio prediletto del partito», condannato a morte durante i processi staliniani degli anni Trenta), poté infine proporre pubblicamente il testamento spirituale del marito, tenuto a mente per cinquanta anni. Perché sarebbe stato troppo rischioso conservarne il testo scritto.

Gorbaciov richiamò dal confino anche il grande scienziato, e oppositore del regime, Andrej Sacharov. Nell’inedito contesto che si era determinato, Sacharov fu anche eletto alla Duma. Avrebbe potuto essere un grande riferimento per il rinnovamento democratico del Paese. La sua scomparsa prematura (nel 1989) fu una vera iattura per la Russia. Quasi un segno della piega che, al di là degli sforzi dell’«uomo nuovo» del Cremlino, avrebbero preso le cose.

Ebbe molti meriti, comunque, Gorbaciov. Ritirò le truppe sovietiche dall’Afghanistan, dove erano impegnate in una sanguinosa guerra da anni, siglò con il presidente americano Reagan l’accordo per la riduzione degli armamenti e soprattutto garantì, in modo inatteso, che i tumultuosi cambiamenti che stavano avvenendo in Europa centro-orientale (dove i regimi del «socialismo reale» crollavano come castelli di carta) e in Germania (dove il 9 Novembre 1989 venne giù il Muro) potessero dispiegarsi in modo pacifico, senza l’intervento delle truppe sovietiche.

Ma il ridimensionamento del ruolo dell’Unione Sovietica (e, poi, della Russia) sul piano internazionale, insieme alle difficoltà di carattere materiale cui era sottoposta la popolazione in un periodo di difficile transizione (politica ed economica), furono all’origine del drammatico calo di popolarità di Gorbaciov. Seguirono, come è noto, il tentativo di colpo di stato messo in atto dai «conservatori» sovietici e la fine dell’Urss stessa, con la nascita della C.S.I. (Confederazione Stati Indipendenti), quando fu riconosciuta anche l’indipendenza dell’Ucraina. Gorbaciov intristito enormemente anche dalla perdita della cara moglie Raissa, avrebbe da lì in avanti vissuto, e sofferto, la rappresentazione schizofrenica che della sua esperienza veniva proposta.

Esaltato fino all’assegnazione del Premio Nobel sul piano internazionale e detestato, quasi odiato, come responsabile della decadenza della società, all’interno della sua Russia. Eppure, c’era stato un momento in cui l’entusiasmo sembrava mettere le ali ai piedi ai suoi sostenitori. Ricordo quando, nel periodo «caldo» e promettente della «perestrojka» venne alla Badia Fiesolana, a trovare Ernesto Balducci e «Testimonianze», l’intellettuale e giornalista Ambarzumov, che collaborava anche con «L’Unità». Descriveva, come rapito, l’incanto del nuovo (con la libertà del dibattito, con la prospettiva di un effettivo ruolo democratico per la Duma) che si andava facendo. Venne anche una delegazione della Chiesa Ortodossa.

Ho viva l’immagine dell’importante prelato ortodosso che era nostro ospite e, a cena, discuteva animatamente con Balducci, con Lodovico Grassi, con chi scrive. D’altra parte, a Balducci l’«opzione Gorbaciov» sembrava probabilmente il coronamento e l’avverarsi della prospettiva su cui avevano implicitamente puntato molti cattolici democratici, come lui stesso e La Pira. La prospettiva, cioè, di una riforma dall’interno di quello che allora si definiva come «sistema socialista». Ma quella riforma o era impossibile in sé (come le vicende storiche sembrano aver confermato) o, comunque, il tentativo di avviarla e di condurla avanti era arrivato fuori tempo massimo.

Prima, in forma meno radicale, all’interno dell’Urss, ci aveva provato, con la «destalinizzazione», Nikita Krusciov (autore del «rapporto segreto» sul «culto della personalità», al ventesimo Congresso del Pcus, nel 1956). Che, però, fu destituito nel 1964, per fare posto ai lunghi anni della «stagnazione» impersonata da Leonid Breznev. Fuori dall’ Urss, negli altri paesi del «socialismo reale», avevano cercato una loro strada, prima, gli ungheresi (nel 1956) con la loro rivoluzione (di cui tesse le lodi una grande pensatrice come Hannah Arendt) e, poi, i cecoslovacchi, nel 1968, con la loro pacifica «Primavera di Praga».

Tentativi, entrambi, soffocati dall’intervento militare e dai carri armati sovietici. Gorbaciov ha coraggio, ha capacità comunicativa e si impegna con tutte le sue forze. Ma arriva troppo tardi. C è tutto un mondo che va in frantumi. Tornando ancora a Balducci, ho in mente lo sgomento con cui seguì il tentativo di colpo di stato contro Gorbaciov. Disse anche, a più riprese, che non gli piaceva, e non gli dava affidamento, Eltsin. E i fatti sembrano avergli dato ragione.

Le immagini del colpo di stato anti-gorbacioviano, a me e all’amico Tonino Virone, è capitato, curiosamente, di seguirle in televisione da un ristorante di Porto Santo Stefano. Eravamo lì non in vacanza, ma per intervistare Miklos Vasahrelyi, uomo di sinistra e collaboratore, nell’Ungheria del 1956, del primo ministro Imre Nagy, comunista, ma poi impiccato dai sovietici per avere appoggiato le istanze di autonomia nazionale e di democratizzazione sostenute dagli studenti e dai consigli operai.

Vasahrelyi era un illustre sopravvissuto. La persona adatta per discutere di quanto, a Mosca, stava avvenendo. Il suo parere fu netto: «Non si torna indietro». Aveva ragione. Il golpe fallì miseramente. Ma le cose, poi, non sono andate avanti esattamente nella direzione che si sarebbe potuto pensare e auspicare. Putin, del resto, l’ha detto chiaramente. Secondo lui, quel che è successo nel 1989 (con le «rivoluzioni di velluto» nell’Europa centro-orientale e con il crollo del Muro) e nel 1991 (con lo scioglimento dell’Urss) rappresenta una catastrofe geopolitica. E infatti a Mosca, a Gorbaciov rendono, a parole, un generico omaggio formale, ma, quasi sicuramente, non faranno nessun funerale di stato. Ancora più espliciti sono stati i cinesi che hanno parlato dell’ultimo leader sovietico come di «un personaggio tragico, che è venuto incontro a tutti i bisogni degli americani».

Un modo un po’ frettoloso, unilaterale e ingeneroso, certamente, di etichettare un’esperienza, un’epoca, una personalità contraddistinte dal segno della complessità. Ma come meravigliarsene? Certo c’è chi non dimentica come tra i riferimenti dei giovani democratici di Piazza Tien an Men c’era anche l’uomo della «glasnost» (che alla loro protesta, certamente, guardava con simpatia senza avere tuttavia la possibilità di prestare loro aiuto). Sono fatti lontani, si dirà. Ma la scomparsa di Mikhail Gorbaciov ha mosso tanti ricordi. Forse c’è, in quegli eventi lontani, anche una traccia di futuro. La storia (che, intanto, restituirà all’esperienza di Gorbaciov, segnata dal fallimento, ma non priva di generosità e creatività politica, il posto che merita) saprà darcene puntualmente conto.

Severino Saccardi

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