Migranti, storia di Michela che non si arrende mai

Firenze – Forse è finita, qui a Firenze, la lunga serie di sventure che hanno colto Michela, una giovane donna di circa 48 anni proveniente dal Congo, di famiglia cattolica, che è riuscita a lasciarsi alle spalle un passato segnato dall’orrore, grazie anche a quella fede e a quella Chiesa di cui suo padre, in Africa, è diacono. “Firenze mi ha accolta”, dice, mentre i suoi occhi neri e intensi si fanno tristi, e il passato sembra offuscare di nuovo di terribili fantasmi il suo sguardo. Sì, Firenze l’ha accolta, almeno finora, con un piccolo lavoro in una mensa e nonostante i salti mortali di una povertà dignitosa, la possibilità di vivere con decenza. E Michela, per ricambiare “la fortuna di essersene uscita viva, dalla mia vita precedente, mantenendo il mio equilibrio”, ora impiega le sue ore libere nel volontariato, “perché voglio ridare agli altri ciò che ho ricevuto per me”.

Non era cominciata male, la sua vita, a Mattadi, dov’è nata. Figlia di un professore di francese, cattolico, anche sua madre aveva studiato all’università. Famiglia numerosa, (undici fra fratelli e sorelle) sembrava che anche lei e i suoi fratelli e sorelle dovessero seguire il naturale corso delle cose: scuola, istruzione superiore, università.

“Sono nata a Mattadi, Repubblica Democratica del Congo – inizia a narrare Michela – eravamo undici, fra fratelli e sorelle. Erano gli anni ’70. Mio padre era professore di francese, psicologo, e aveva una laurea in  pedagogia e letteratura africana. Insegnava nei licei. Mia madre ha studiato scienze sociali, poi ha insegnato varie cose, mettendo in piedi persino corsi di sartoria. Alla fine, come lavoro, dopo avere studiato per infermiera, ha trovato un impiego. Fino ai miei sei anni, eravamo in una situazione tranquilla”.

La tragedia personale di Michela comincia quando la mamma si trasferisce in un’altra provincia, per star vicina a sua madre, e lascia due figlie a una vicina di casa, una signora francese con marito greco. “Mio padre veniva a trovarci dopo lavoro. La cultura in cui siamo cresciute era occidentale, francese, e lì abbiamo avuto un po’ di problemi”, legati in buona sostnza a sentirsi in un certo senso senso estranee alla loro cultura d’origine.

“Con la signora francese sono stata fino a 12 anni. A quel punto, maman dovette tornare in Francia, e voleva portarci con se’. Mio padre era d’accordo, ma mia madre si oppose risolutamente. La signora francese, cui eravamo legate come a una vera madre, ci lasciò la casa in eredità, andando in Francia col marito. Ma lo Stato requisì l’immobile e lo utilizzò come casa per  insegnanti”.

“Quando maman tornò in Francia, ebbi difficoltà a riprendere la mia cultura originaria. Mio padre c’era sempre, ma i rapporti con mia madre divennero sempre più burrascosi. Andavo a scuola. A quei tempi mio zio, che tornava in Africa dopo aver abitato in Belgio, mi volle portare a vivere con lui  per consentirmi di vivere secondo quella che era ormai la mia “vera” cultura”.

Nel frattempo il padre di Michela era diventato  ispettore governativo per il controllo del cemento che veniva impiegato per la costruzione di nuovi immobili nel Paese. “Mio padre e la mia famiglia sono sempre stati cattolici – precisa Michela – per quanto mi riguarda avevo seguito la fede religiosa della signora presso cui stavo, mia madre adottiva, che era di professione religiosa ortodossa. Quando lei tornò in Francia, tornai alla mia fede originaria, vale a dire, quella cattolica”.

Dopo pochi anni, il padre lasciò l’ispettorato per diventare diacono della chiesa cattolica e gli fu assegnata una parrocchia a Klinshasa, che cominciò a gestire con la moglie e il resto della famiglia. “C’era molto da fare e andavo ad aiutarli, ad esempio il fine settimana – ricorda Michela – il martedì c’era la possibilità di avere il latte per i bambini denutriti dalle suore. Io e mio padre creammo una scuola per aiutare i bambini, e avevo anche una farmacia. Eravamo in un quartiere povero, e mi arrangiavo chiedendo anche piccole somme ai miei parenti più benestanti per consentire ai bambini di frequentare la scuola e mangiare”.

Si cresce presto in Africa: a quell’epoca Michela aveva sui 14 anni. Ma la situazione politica del Paese stava precipitando. “Cominciarono a capitare tante cose brutte – dice la donna – i bambini venivano utilizzati dai ricchi, che li comandavano in tutti i modi. Cominciai a difenderli. I figli delle persone importanti e ricche li prelevavano per forza, anche le ragazze, e noi della parrocchia, anch’io, cercavamo di difenderli. Per questo fui anche denunciata”.

In quell’epoca cominciò la guerra col Ruanda.

“Arrivai alla Maturità e mi iscrissi all’Università. E lì cominciò il periodo peggiore”. Infatti, l’ordine pubblico era saltato: “Si sparava alla gente senza nessuna regola, in strada, e potevi essere arrestato senza motivo. In questo caos mi ritrovai anch’io sotto sotto le grinfie delle forze armate. Infatti, dal momento che fisicamente sembro un’eritrea, fui subito notata, nell’ambito della guerra etnica e posta sotto osservazione”. Michela era infatti diventata una bellissima ragazza, ma la sua avvenenza diventò la causa della sua disgrazia. “Fui prelevata e portata in caserma. E da lì, subii molte angherie, torture e violenze”. Di lei si era infatti incapricciato una persona molto potente e temuta, un alto esponente delle Forze Armate.

“Intanto i miei parenti, in particolare mio padre, vivevano nell’angoscia: ero sparita e nessuno sapeva dov’ero. Quindi cominciarono a fare ricerche e si rivolsero anche a persone che conoscevano, fino a scoprire che mi tenevano segregata in caserma. Senza nessun apparente motivo, solo basandosi sulla scusa che sembravo di una etnia diversa, magari del Ruanda, paese col quale in quei tempi eravamo in guerra, con tutte le tragedie che scaturivano dal conflitto hutu-tutsi e congolesi. Mi trovavo come in una casa, dentro la caserma, alla mercè di chi mi aveva rapito”.

Ma incredibilmente Michela riesce a scappare. “Dentro all’area della caserma, era come una città, col mercato. Eravamo spesso sotto il tiro dei mortai. Io cucinavo, pollo con patate anche per le mie guardie del corpo che erano ragazzi giovanissimi, quasi bambini (14 anni circa). Il primo tentativo di fuga fu inutile: anzi, fu proprio il mio rapitore a salvarmi la vita, dopo avermi rintracciata, tirandomi via da un colpo di mortaio. Poi, ricominciai la solita esistenza: fui riportata in caserma e continuai come al solito, ma sempre cercando di capire come potevo fuggire”.

L’occasione si presentò  quando mancarono alcuni alimenti, “olio e sardine per la precisione. Dissi alle mie guardie che andavo a prenderle al supemercato dentro la caserma e dal momento che ormai si fidavano di me, mi lasciarono andare sola, pensando che tanto non potevo scappare dall’area militare. Ma dentro al supermercato c’era un’uscita da cui passavano le merci. Con aria innocente infilai la porta e mi ritrovai in strada. Camminai facendo finta di niente poi, al primo taxi che incontrai, chiesi un passaggio fino all’Università, all’equivalente della Casa dello Studente. Rivedendomi i miei amici si misero a piangere, tanto ero cambiata. A quei tempi le Università erano terreno di contestazioni e rivolte, per cui i militari per entrare dovevano attaccare in forze e solitamente ci si trovava in una specie di area “libera” dal loro controllo. Riuscii a inviare un messaggio ai miei, e per fortuna il mio rapitore non aveva ancora saputo dove abitavano, probabilmente pensando che non sarei mai riuscita a tornare fuori dalla caserma e che loro si sarebbero rassegnati alla mia scomparsa. Meno male, altrimenti li avrebbe uccisi tutti. I miei genitori vennero a trovarmi, mio padre piangeva, e si recò immediatamente all’ambasciata italiana. La Crocerossa si offrì di portarmi via subito, ma mio padre voleva che lasciassi il Paese con i documenti. Mio padre era diacono, mia sorella maggiore, che nel frattempo era riuscita ad andare in Europa, era diventata monaca. Per cui, la Chiesa cattolica mi “adottò” e in questo modo potei lasciare il Paese e arrivare in Italia”.

Michela arriva in Italia a 26 anni. “Arrivai a Fiumicino e da lì mi portarono a piazza San Pietro, dove stetti per un po’ fra le monache missionarie Calasanziane. Ho lavorato per conto loro in Vaticano alla fureria, aiutandole e stando fra loro come laica, cosa resa possibile anche perché mio padre era agente pastorale. Sono stata lì per due anni, ma volevo tornare a studiare, dal momento che mi mancavano pochi mesi per finire. Infatti il mio corso di studi non aveva potuto essere regolare: oltre alle mie vicissitudini personali, le Università era continuamente aperte e chiuse dal governo, a causa dei disordini e delle proteste studentesche”.

Così, Michela lascia le suore, pur continuando a dare una mano, e se ne va a studiare a Tor Vegata, Scienze Infermieristica. “Le suore mi chiesero tuttavia di andare in un posto più vicino, e così, a tappe, arrivai in una casa famiglia vicina all’ospedale Cristo Re, e ad altre strutture ospedaliere”. Ma la vita per Michela si complica anche in Italia: lascia la facoltà di Scienze Infermieristiche  e comincia a frequentare alla Upter,  Università popolare, psicologia clinica che era gestita dai Padri Scolopi. “Lì ho studiato psicologia analitica e clinica. Avrei dovuto finire il corso di laurea a Torino, ma le suore avevano bisogno del mio aiuto e quindi non andai”.

Ma i fantasmi del passato risorgono improvvisamente. In quegli anni, infatti, Michela subisce una violenza e un pestaggio in piena regola che la manda in coma. Uscita dall’ospedale, si sposta a Firenze. “Non potevo più restare in quella città – dice semplicemente – a Roma, la situazione per le donne è molto difficile, in particolare se sole”.

A Firenze trova lavoro: in un albergo, come cameriera ai piani. Torna a scuola, un corso di assistenza agli anziani, entra in un progetto di formazione Cesvot, dove studia anche inglese. Finito il lavoro all’albergo, trova un ‘altra occupazione. “A Firenze ho una casa e un piccolo lavoro”, dice. Ma Michela è più forte anche della sua stessa vita, e non si arrende. E trova un po’ di serenità. “Faccio teatro, danza terapeutica, canto. E faccio volontariato. In un certo senso, posso dire che Firenze mi ha accolta e ho il dovere di restituire ciò che mi ha dato”.

Foto: Luca Grillandini

 

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