Roma – Il fenomeno epocale delle emigrazioni si affronta portando “elementi positivi, costruttivi”, perché il nuovo ordine sociale non si crea “con i soli lamenti, le accuse, la denuncia di ciò che gli altri non fanno”. Sono parole pronunciate quasi 40 anni fa dall’allora generale dei Gesuiti Pedro Arrupe, del quale si apre domani 5 febbraio il processo di beatificazione.
Sembrano dette ieri ed è stato naturale che il suo successore Arturo Sosa le abbia riprese in occasione dell’inaugurazione del nuovo Centro di accoglienza e integrazione Matteo Ricci per richiedenti asilo e rifugiati.
Un evento che ha registrato una grande coralità di interventi e presenze del massimo livello istituzionale ed ecclesiastico: dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al cardinale vicario di Roma monsignor Angelo De Donatis, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti con padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli e tutti i vertici della Compagnia di Gesù.
Tutti a lanciare “un segno forte dal punto di vista simbolico e concreto”: “L’atteggiamento di chiusura si impadronisce di noi, del nostro cuore e della nostra mente. Ci inaridisce, ci rende meno umani”, ha detto il padre Ripamonti.
Fortissimo anche il segnale lanciato dal presidente Mattarella la cui presenza era già un ammonimento al governo giallo-verde, come le parole inequivocabili: «Quel che avviene in ogni parte del mondo – ha sottolineato – riguarda tutte le altre parti e questo sottolinea l’esigenza di interventi globali sul fronte migratorio…Nessun Paese da solo è in grado di affrontare o di regolare un fenomeno di questo genere. Occorrono intese globali, come l’Onu sollecita a fare».
Il fenomeno migratorio coinvolge circa 70 milioni di persone in tutto il mondo mentre due milioni sono quelli fuggiti dal Venezuela distrutto dal malgoverno e dalla crisi, per il quale Mattarella ha chiesto fermezza e decisione da parte del governo. Serve, ha detto, “chiarezza su una linea condivisa con tutti i nostri alleati e i nostri partner l’Ue”. E “non ci può essere incertezza né esitazione” perché la scelta è tra “la volontà popolare e la richiesta di autentica democrazia da un lato e dall’altro la violenza della forza”.
Realizzato anche con le risorse ricavate dalla vendita della casa dei Gesuiti di Firenze, che nel 2017 fu oggetto di un’occupazione da parte di un centinaio di rifugiati somali, che unico esempio in Italia fino ad allora, si concluse felicemente con la sistemazione di tutti, il Centro intitolato a Matteo Ricci, primo gesuita in Cina “maestro nel lasciarsi interrogare dalla ricchezza di persone di un’altra cultura”, rappresenta un modello di accoglienza e integrazione realizzato per piccoli gruppi (28 posti ) di migranti forzati impegnati in percorsi di inclusione sociale, senza avere ancora la possibilità di provvedere autonomamente al proprio alloggio.
Si tratta in sostanza di una struttura di secondo livello destinata a coloro il cui percorso di integrazione si interrompe per aver perso la possibilità di usufruire dei servizi di accoglienza. Per un periodo massimo di quattro anni avranno l’opportunità di acquisire competenze per entrare nel mondo del lavoro, di stabilire relazioni sociali, in modo da facilitare il loro inserimento. “Quanto si farà di creativo e formativo fra queste mura – ha detto Ripamonti – potrà contribuire a edificare una comunità globale”. E contribuirà a ricostruire un pezzetto di quella solidarietà umana che certe scelte politiche stanno mettendo da parte.
La nuova struttura occupa ampi spazi un tempo riservate alle cucine della grande casa generalizia dei Gesuiti di via Astalli, dove opera da 35 anni il Centro Astalli sede del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati che con le altre sedi territoriali italiane accoglie e accompagna nel lungo e difficile iter burocratico circa 30mila migranti forzati (15mila solo a Roma).
Foto: uno dei grandi murales realizzati da rifugiati all’interno del nuovo Centro Matteo Ricci. Sotto, il Padre generale dei Gesuiti, il venezuelano Arturo Sosa