Firenze – Il messaggio è contenuto in un’immagine forte e diretta. Le figure del quadro più drammatico e sconvolgente di Picasso protagoniste di una scena di naufragio. Morte e disperazione in primo piano cui fa da contrasto una di quelle imponenti navi da crociera che sono il simbolo dell’opulenza e del consumismo occidentale. Un quartiere di ricchi sospeso sul mare che resta del tutto indifferente di fronte a ciò che sta accadendo a poche centinaia di metri di distanza.
“La Guernica dell’Egeo”, opera dell’artista bulgaro Javcho Savoc, è stata scelta da Emilia D’Antuono a illustrare la raccolta di saggi “L’umano al tempo del disumano – Percorsi dell’ebraismo europeo del Novecento” (Lithos Editrice di Roma) perché “è straordinariamente evocativa del filo conduttore e degli intenti del volume”.
Infatti è raro imbattersi in un libro scientifico di storia del pensiero e di filosofia morale che affermi con orgoglio la sua attualità, proponendosi alla lettura non solo degli studiosi, ma di tutti coloro ai quali sta a cuore la difesa dei valori di umanità, libertà e democrazia.
Docente di Filosofia morale presso l’università Federico II di Napoli, membro della commissione per l’Etica della Ricerca e la Bioetica del CNR, la D’Antuono ha raccolto nel volume alcuni saggi inediti inserendoli insieme ad altri già usciti a formare un unico viaggio, dice, verso “una terra rimasta a lungo incognita”, nonostante sia ben presente “nella mappa mentale dell’Occidente”, l’ebraismo.
Nella storia dell’ebraismo europeo, nella testimonianza dei suoi esponenti e nella discussione filosofica e teologica che lo ha accompagnato, si possono individuare i concetti e gli schemi di pensiero che conducono all’esclusione e alla persecuzione dell’altro, portatore di una cultura diversa, fino all’estremo dell’annientamento perpetrato dalla follia razzista del nazionalsocialismo.
L’hitlerismo ha rappresentato l’irruzione dell’inumano e del disumano sulla scena del Novecento. L’ideologia razzista ha prodotto infatti quell’identificazione dell’uomo con un essere “preteso naturale e non con l’agire”, segnando “l’inizio della fine dell’idea di umanità”.
Con questo assunto, tutto diventa possibile, che è il principio ispiratore della prassi dei lager: “Il filo del tempo si spezza: nella sfera dell’essere entra la realtà di Auschwitz, con tutto il peso della sua ir-riconducibilità a esperienze già depositate nel “cuore di tenebra” della storia”.
In questa analisi l’autrice si fa accompagnare da Franz Rosenzweig, uno dei pensatori più importanti del novecento, ebreo tedesco, dunque a cavallo delle due culture ebraica e cristiana, che alla fine ha scelto quella della sua tradizione familiare per andare alla ricerca di ciò che alla fine può farle incontrare.
Analizzando con Rosenzweig i vari passaggi della “questione ebraica” nel pensiero occidentale, si possono mettere a fuoco gli elementi essenziali che producono l’esclusione della diversità. Come il filosofo tedesco trovò infine la patria di un’identità ebraica e tedesca, perché non sperare che questo stesso percorso che porta a una sorta di Mesopotamia dello spirito, “possa essere compiuto su scala storico-universale?”.
Ciò che accade sotto i nostri occhi, la nave dei disperati che affonda nell’indifferenza, va nella direzione opposta. Il risorgere di sentimenti razzisti nelle società di oggi che si accompagna all’immagine dei corpi dei migranti che annegano a centinaia nel Mediterraneo in un’indifferenza giustificata con la scelta politica – quasi che questa sia un ordine irrevocabile di difesa di diritti e privilegi – è la continuazione dell’inumano e del disumano anche nel nostro secolo.
Come recuperare il senso della relazione e del rapporto con l’altro? Una delle strade è tornare al significato primo della Rivelazione “che è la forma originaria di una relazione fra due” e il duale “è la fonte originaria del plurale”. Da lì comincia a essere possibile un rapporto, primo passo per la delineazione della più compiuta identità dell’umano che si conclude con l’identificazione della rivelazione “come evento dell’amore e della peculiare imperatività che all’amore compete”.
Attraverso figure di intellettuali e studiosi del novecento, come Emmanuel Levinas, Hannah Arendt, Primo Levi ed Emilio ed Enzo Sereni, Emilia d’Antuono cerca, nella terza e soprattutto nella quarta parte del libro intitolata significativamente “resilienza”, di mettere a fuoco ulteriori antidoti concettuali al rinascere della malattia che tanto sangue e tanta violenza ha provocato nel secolo scorso.
I fili di questo percorso passano attraverso “un umanesimo che infine si sappia e si voglia come umanesimo dell’altro uomo” (Levinas), diventando consapevoli, grazie alle riflessioni di Hannah Arendt, che il male si nasconde anche nell’ordinarietà, nella banalità: “Esplorando la faccia nascosta del male, la scaturigine variamente mascherata e perciò apparentemente non individuabile di esso, la filosofa tedesca trae a piena visibilità l’abisso che minaccia di inghiottire l’intera costellazione dell’umano”.
“Auschwitz, Hiroshima, Kolima, l’inesausta strage di innocenti che guerre e politiche di potenza continuano a produrre, i corpi portati dal mare che nulla più chiedono a chi non vuole ascoltare – scrive la studiosa -non sono forse altrettante negazioni, o meglio: rinnegamenti, della rivelazione, dell’evento della parola suscitatrice di un possibile ordo amoris? Non costituiscono il tentativo che il XXI secolo reitera, di respingere nell’abisso del nulla la parola risuonata con e nella rivelazione?”
Occorre dunque alzare una barriera concettuale per fermarlo. La storia di alcune grandi personalità ci offre alcuni spunti che superano l’astrattezza dei concetti per offrire indicazioni concrete come “non l’uomo ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra”. Oppure: “rendere giustizia è innanzitutto riconoscere il carattere di inalienabilità della dignità dell’altro. Riconoscerlo operativamente, agendo perché la dignità acquisisca un essere storicamente corposo e solido”.
Lo strumento fondamentale per resistere in tempo di inumano e disumano è dunque l’uso della parola come hanno fatto personalità come i fratelli Sereni e Primo Levi: “Innanzitutto come parola dei resistenti, armati e non che, con l’esercizio di virtù eroiche ma anche di virtù quotidiane hanno sconfitto regimi e ideologie, rendendo possibile la ricostituzione di un comune ethos europeo un nuovo inizio che resta dato di fatto incontrovertibile quali che siano oggi le difficoltà dell’Europa”.
La parola torna a essere madre di umanità. La prima, la più pregnante, è dignità: “Valore intrinseco e costitutivo che esige che nulla sia più concesso all’inumano veicolato tanto dal razzismo quanto dall’acosmia ossia da quel fenomeno di espulsione degli esseri umani dal mondo comune che genera i senza mondo, i superflui”.
E’ il momento di alzare la voce e di affermare con forza i rischi che corriamo accettando “l’inumano e il disumano di oggi”. Come ha fatto con questo bellissimo libro la filosofa napoletana.