Migranti e integrazione in Toscana, contano cultura e conoscenza delle lingue

Lo stesso concetto di integrazione necessita di una definizione rigorosa e il più possibile oggettiva che ne consenta la misurazione e la successiva valutazione. Utilizzando la definizione proposta dalla Caritas italiana che a sua volta è ripresa dal volume Le nuove frontiere dell’integrazione: gli immigrati stranieri in Toscana (a cura di F. Berti e A. Valzania, Franco Angeli, Milano 2010), l’integrazione appare come “quel processo multidimensionale finalizzato alla pacifica convivenza entro una determinata realtà storico-sociale, tra individui e gruppi culturalmente e/o etnicamente differenti, fondato sul reciproco rispetto delle diversità etno-culturali, a condizione che queste non ledano diritti umani fondamentali e non mettano a rischio le istituzioni democratiche”. E per misurarne e valutarne l’incidenza, gli autori hanno elaborato 4 indici che riguardano ciascuno una specifica dimensione: economica, sociale, culturale e politica, oltre a un indice di integrazione complessiva.

Il primo dato emergente ci dice che l’integrazione in Toscana avviene a “marce” differenti a seconda degli indici prescelti (correlati alle varie etnìe) e all’indice di integrazione generale.
Così, se prendiamo quest’ultimo, scopriamo che è l’etnia albanese quella con l’integrazione generale più alta (0,53), anche se non eccelle, in questa teorica graduatoria, in nessuna delle categorie prese a misura. Andando avanti, si scopre che gli indici d’integrazione culturale migliori sono quelli della comunità peruviana e romena (0,54), nella dimensione sociale prevalgono gli indiani (0,52), in quella politica i cingalesi e i romeni (0,52), in quella economia i cinesi(0,56). Caso a se’, questo della comunità cinese, che se vede la maggiore integrazione economica, risulta undicesima per quella complessiva e ultima fra le tredici comunità principali per quanto riguarda gli indici culturale e sociale.
Ma la sorpresa maggiore, scorrendo i dati, è che in realtà la provenienza etnica non è affatto un dato centrale per valutare il maggiore o minore indice di integrazione degli individui.
Mantenendo il riferimento ai migranti toscani, appaiono di gran lunga più pregnanti alcuni fattori quali il progetto migratorio, il capitale umano e la condizione giuridica: ad esempio, per quanto riguarda l’indice di integrazione complessiva, la ricerca evidenzia che è molto più alto in coloro che intendono stabilirsi definitivamente in Toscana: circa il doppio, rispetto ai migranti che si propongono di rimanere per un periodo di tempo determinato, come il caso delle molte migranti provenienti dall’Europa dell’Est spesso impegnate in un lavoro di cura.
Per quanto riguarda il capitale umano, gli immigrati laureati o diplomati dimostrano un indice di integrazione complessivo molto più avanzato rispetto a coloro che hanno concluso solo il ciclo di scuola dell’obbligo o non sono in possesso di alcun titolo di studio (  Anche il capitale umano, comunque, mostra una correlazione altamente positiva con l’integrazione: gli immigrati laureati e diplomati, infatti, denotano un indice molto più elevato di quello di coloro che hanno concluso solo il ciclo di scuola dell’obbligo o non hanno nessun titolo di studio (rispettivamente 0,56 e 0,51 contro 0,43 e 0,40).
Passando alla condizione giuridica, la ricerca conferma un dato intuibile: i titolari di doppia cittadinanza (0,77) e coloro in possesso di carta di soggiorno o di un permesso di lungo periodo (0,56) mostrano indici nettamente superiori rispetto agli irregolari (0,27) ma anche ai titolari di un permesso di soggiorno breve (0,50).
Fra le variabili che evidenziano una correlazione positiva con la capacità d’integrazione, un ruolo importante è configurato dalle competenze linguistiche e dalla conoscenza dell’italiano, ma anche il capitale sociale, il senso di appartenenza (che evidenzia esiti opposti a seconda che sia più accentuato quello riferito al paese d’origine oppure a quello d’emigrazione) e, ovviamente, l’anzianità della presenza sul territorio regionale.
A conti fatti, la sfida dell’integrazione per gli autori della ricerca non è rigidamente legato all’appartenenza religiosa o al fatto di provenire da Paesi con culture e tradizioni diverse da quelli dell’Italia e della Toscana, quanto piuttosto al “non conoscere la lingua italiana, vivere relazioni sociali circoscritte e limitate ai membri del gruppo nazionale di appartenenza, essere poco istruiti e non aver avuto occasione di frequentare la scuola, tanto nel paese d’origine quanto in Italia”.
In soldoni, non è dunque la  “struttura” culturale a rappresentare un limite all’integrazione, quanto piuttosto alcuni aspetti che possono anche modificarsi. Ciò sottolinea la necessità di “accompagnare” i migranti verso l’integrazione fornendo loro gli strumenti adatti a sollecitare un confronto e un rapporto con la società in cui vivono, senza tentativi di “assimilazione culturale”.

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