La tempistica è importante. E anche il terzo principio della dinamica: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Colpo su colpo va avanti la battaglia fra politica e magistratura. Comincia dopo la prima pronuncia del Tribunale di Roma il 18 ottobre scorso, che negò la convalida per il rimpatrio dei primi 12 migranti portati in Albania; a distanza di poche ore arriva il decreto governativo che si faceva in proprio l’elenco dei paesi sicuri per aggirare la normativa europea. Ma non serve a fermare i giudici che, a Bologna e ancora a Roma, con nuove pronunce su nuovi casi, vanificano lo sforzo normativo del governo e anche il senso del centro migranti in Albania.
La risposta stavolta sarà più incisiva, la palla passa alla Camera, dove è in discussione il decreto flussi. Perché non inserire lì due emendamenti che mettono a posto anche le ultime questioni sollevate dai magistrati? In fondo si parla sempre di migranti. Ci pensa la relatrice stessa, Sara Kelany, di Fdi, a farsene carico: con il primo emendamento si assorbe il contenuto del decreto Paesi sicuri, bypassando così anche il Senato dove la norma giaceva e lì morirà. Il secondo emendamento è invece dedicato direttamente ai magistrati, esautora quelli delle sezioni specializzate dei tribunali dell’immigrazione e sposta le loro competenze alle Corti d’Appello. Lo hanno subito soprannominato ‘emendamento Musk’, il supermiliardario che invitava i giudici a levare il disturbo. I deputati del Pd lo definiscono “una chiara vendetta contro chi, applicando la legge, si è rifiutato di piegarsi a richieste che violano i principi del diritto”.
La reazione dei magistrati arriva prima ancora dell’approvazione dell’emendamento e ai massimi livelli: una lettera di tutti e 26 i presidenti delle Corti d’Appello al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio, ai ministri della Giustizia e dell’Economia, ai presidenti delle Camere, all’Anm. Si sottolineano gli “esiti gravi” dell’eventuale trasferimento di ulteriori competenze ai giudici di secondo grado che cancellerebbe anche gli impegni sul Pnrr per ridurre i tempi della giustizia civile, accumulando ancora più arretrati. Si ricorda inoltre che solo due anni fa Il ministro della Giustizia aveva sollevato le Corti d’Appello da quegli incarichi rafforzando con risorse e organici le sezioni specializzate sulll’immigrazione. Carlo Nordio tranquillizza via tv: “Non ci sarà nessun aggravio, nell’emendamento si prevede di ridurre altre competenze delle Corti d’Appello”.
Sempre dai giudici, e siamo al 20 novembre, era partita un’altra iniziativa, in risposta alle violente reazioni politiche contro i magistrati dell’immigrazione. Stavolta si muove il Consiglio Superiore della Magistratura, che approva la risoluzione per la tutela dei giudici di Bologna. Iniziativa di forte impatto istituzionale, erano 15 anni che una pratica ‘a tutela’ non finiva in una risoluzione del plenum.
Botta, risposta. Torniamo a Palazzo Chigi, tocca al ministro Carlo Nordio, che concepisce di inserire nel decreto giustizia all’esame del governo e che si occupa di tutto (giudici di pace, reati informatici, edilizia penitenziaria) un articolo, il 4, dedicato solo ai magistrati. Viene modificata la legge sugli illeciti disciplinari: qualunque giudice parli in pubblico su temi dell’attualità politica legislativa o giudiziaria, diventa ‘incompatibile’ e non può trattare casi inerenti a quei temi nella sua attività professionale. E a valutare il tutto sarà lo stesso governo. La formulazione di questo articolo, come ha spiegato il segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati Salvatore Casciaro, “è ancora lasca e generica ma, se così fosse, comprimerebbe un diritto costituzionale. Noi magistrati siamo cittadini e abbiamo i diritti di tutti gli altri cittadini”. Se passasse questo famigerato art.4, aggiunge, “per noi non sarebbe neanche più ammissibile partecipare come tecnici in sede di audizione parlamentare o in un convegno, oppure in un dibattito pubblico”.
Il ministro aveva tranquillizzato, “le bocche dei giudici non devono essere mute” promettendo di non avviare azioni disciplinari con chi è troppo loquace, però poi elabora articoletti e norme “lasche” che potrebbero essere ben più dirompenti di un’azione disciplinare. Comunque quella norma non è mai entrata a Palazzo Chigi, il Consiglio dei ministri del 25 novembre è stato disertato da Forza Italia, ufficialmente per il G7 degli Esteri, in realtà si stava consumando un’altra battaglia stavolta all’interno della maggioranza e il campo dei giudici è stato temporaneamente trascurato. Così il decreto “urgente” con misure inerenti la Giustizia è slittato. Sono i due vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini i contendenti che si prendono la scena facendo fibrillare il governo e impensierire la presidente Meloni. Questa partita si gioca in commissione Bilancio del Senato dove si discute il dl fiscale, l’oggetto del contendere è il canone Rai che la Lega vuole ridurre a 70 euro e Fi lasciare a 90. Alla fine i berlusconiani tirano la corda, votano con l’opposizione e la maggioranza va sotto per la prima volta dopo due anni. Del resto la coalizione non sembra coesa come vuole apparire. In Europa i tre partiti appartengono a tre gruppi diversi e i ‘Patrioti’ di Salvini hanno bocciato la commissione rovinando la festa alla Meloni che era riuscita a far votare anche dai socialisti il suo Raffaele Fitto. Ma il potere cementa, le divergenze vengono derubricate a normali schermaglie e non si vedono pericoli di crisi di governo.
Il decreto flussi intanto, coi suoi emendamenti che riaprono il fronte coi magistrati, continua la breve corsa in Parlamento dove, per chiudere ogni tentazione di modifica e per non tirarla per le lunghe, il governo annuncia la fiducia. Ma c’è un altro sconcertante intoppo segnalato dal Quirinale stesso. Sergio Mattarella stoppa tutto, la storia dei trasferimenti di competenze alle Corti d’Appello non ha alcuna indicazione temporale. Quindi va emendato l’emendamento, si rinvia di 24 ore il voto di fiducia, si rimanda tutto in commissione dove viene aggiunto il termine di 30 giorni prima di avviare la riorganizzazione degli uffici immigrazione.
A fomentare le polemiche si aggiungono così anche gli strappi alle regole parlamentari , le opposizioni invocano il ripristino delle “minime condizioni democratiche” perché il rinvio in commissione non consente alcun dibattito ed “è inaccettabile. Il tutto – scrivono in una nota congiunta – per emendare un emendamento della relatrice la quale copia un emendamento di Fdi. L’ennesimo pasticcio della maggioranza”. Che però procede spedita e alla fine il decreto flussi va in porto e lascia la Camera per arrivare in Senato dove velocemente sarà licenziato con un’altra fiducia.
Era partita diversamente, quel decreto era molto altro e lo ha ricordato la stessa relatrice Sara Kelany, soddisfatta dopo l’approvazione: “Abbiamo regolamentato e disciplinato i flussi regolari, diamo strumenti per contrastare il caporalato, diamo canali preferenziali per l’ingresso delle donne, fissiamo controlli stringenti per le aziende, in modo da far firmare davvero i contratti di lavoro”. Ma quei due emendamenti lo hanno trasformato, il dl flussi doveva ‘aprire’ posti di lavoro, finisce che ‘chiude’ le bocche ai magistrati. “Una porcata”, secondo il deputato del Pd Gianni Cuperlo che non salva niente e, in dichiarazione di voto, fa un accorato appello ai moderati della maggioranza perché ci ripensino: “Vivete nell’ossessione di un fenomeno epocale che piegate ad un allarme repressivo e navigate a vista inseguendo l’umore del tempo e umiliando la Costituzione”. Il segretario di +Europa Riccardo Magi la dice così: “Il governo ha la presunzione di chiedere un canale di produzione normativa aperto in modo permanente: otto decreti sul tema immigrazione, più altre norme inserite in decreti che avevano come oggetto altre materie. Questo è il sintomo dello sbandamento, della confusione e della mancanza di una strategia del governo che ammette pubblicamente di dovere intervenire reiteratamente e in modo compulsivo sul tema dell’immigrazione”.
Tant’è, il dl flussi è in dirittura d’arrivo ed è stata servita la risposta ai magistrati con due piccoli emendamenti. Si lavora apparentemente sotto traccia di questi tempi, piccoli numeri, per risultati esplosivi. Solo venti migranti sulla rotta dell’Albania ma hanno prodotto uno sconquasso nei rapporti fra le istituzioni e anche un buco economico di quasi un miliardo. E c’è di più, i centri albanesi voluti da Giorgia Meloni si sono svuotati anche del personale. Sono loro gli ultimi rimpatriati. Il contingente delle forze dell’ordine a regime doveva arrivare a 295 unità. Un numero mai raggiunto. E ora rimarranno nei centri soltanto sette dipendenti, con ruolo amministrativo. Eccolo l’ultimo triste capitolo della vicenda albanese, in attesa che i giudici della Cassazione, il 4 dicembre, si esprimano su chi debba decidere quali sono i ‘paesi sicuri’ e a quali norme debbano fare riferimento i magistrati che si occupano di rimpatri. Il governo ha fatto passi avanti in questo senso offrendo leggi dello Stato, norme più forti di un decreto ministeriale da cui era partita la guerra ma ancora una volta più deboli forse rispetto alla normativa europea. Si aspetta anche su questo fronte una pronuncia dei giudici di Lussemburgo, sollecitati a fare chiarezza dagli stessi magistrati italiani.
Botte e risposte, ‘piccole’ cose per grandi risultati. Venti migranti su una nave da guerra, la maggioranza va sotto per venti euro del canone Rai, in Parlamento è la stagione degli emendamenti, armi ‘leggere’ che colpiscono duro e si possono infilare ovunque. Una guerra di posizione in attesa della madre di tutte le battaglie, la separazione delle carriere, la principale bandiera di Forza Italia che l’ha passata al ministro della Giustizia per lucidarla al meglio prima del suo arrivo in aula alla Camera il 9 dicembre.