Firenze – Ieri sera, al Cinema La Compagnia, è iniziata la nona edizione del Middle East Now. In una sala gremitissima, tra gli applausi di un pubblico vivace e caloroso, l’attrice Laura Croce, della compagnia teatrale Murmuris, ha recitato i versi del grande poeta palestinese Mahmoud Darwish.
Le poesie di Darwish cantano la sofferenza dell’esilio, la separazione dalla terra madre, l’agognata patria Palestina. Gli struggenti versi del grande poeta sono stati così l’incipit di un percorso di visione e riflessione che il Festival ha creato per comprendere la genealogia del conflitto israelo-palestinese.
L’opening Night cinematografica è invece stata inaugurata da un breve corto, The Best Life (Kuwait) del regista Al-Kout. Il corto, con ironia, rovescia il cliché pubblicitario pervasivo e globale dell’essere connessi sempre e dovunque. Il mite protagonista rimane perplesso di fronte a un continuo ed estenuante chiacchiericcio virtuale. Con The Best Life, si è così aperto il focus principale del Festival, Hashtag#Middle East 2018, che interroga la complessità dell’uso dei social media in Medio Oriente. Dopo il breve divertissement sulle nuove società globali, il Festival ha mostrato uno spaccato della realtà sociale palestinese, con il film Wajib, della giovane regista palestinese Annemarie Jacir.
Nella cultura palestinese, il wajib è un antico rito in cui il padre e il fratello della sposa consegnano a mano le partecipazioni di matrimonio agli invitati. Abu Shadi, un padre divorziato che fa il professore, e il figlio, architetto, che vive da anni a Roma, percorrono la città di Nazareth per consegnare le partecipazioni di nozze della figlia e sorella, Amal. Il tema dell’esilio, introdotto ieri dalle poesie di Darwish, è anche il filo conduttore della drammaturgia narrativa di Wajib.
Tra un padre e un figlio che non si vedono da molti anni, durante un lungo viaggio alla ricerca di parenti e amici, cresce una tensione generata da incomprensioni e differenze generazionali. Abu Shadi e suo figlio, interpretati da Mohammad e Saleh Bakri, padre e figlio anche nella vita, ci conducono all’interno della società palestinese cristiana. Il ritmo brioso e ironico delle conversazioni in auto tra padre e figlio e i rapidi incontri nelle case di parenti e amici permettono di creare una drammaturgia che rilancia la necessità di un dialogo e di una vicinanza affettiva nonostante i contrasti.
Seguiamo, lungo le strade di Nazareth, un film diretto con i toni della commedia sociale, quasi non recitato, improvvisato, come in un originale “docufiction” sui preparativi del wajib organizzato per la giovane Amal. I due protagonisti riscoprono una comune psicogeografia della città, le case degli zii e degli amici più intimi. L’anziano professore, soddisfatto per la propria posizione sociale a Nazareth, rimprovera al figlio di non aver studiato medicina e di aver scelto architettura, vivendo in esilio a Roma, una scelta troppo eccentrica, come del resto il modo di vestirsi del giovane.
Il figlio asseconda le critiche del padre e, passando da un parente all’altro, si mostra contento di ritrovare la sua vita precedente al trasferimento in Italia: amici, zii, cugini e, in particolare, la sorella Amal gli ridanno il senso di appartenenza a una comunità. Aspettando il ritorno della madre, che vive in America con un compagno, per le nozze, il figlio raggiunge l’apice del conflitto con il padre per la decisione di invitare al matrimonio un loro conoscente ebreo. Il figlio ritiene che questo amico ebreo sia una spia inserita nell’apparato scolastico per controllare il pensiero e la vita quotidiana dei giovani palestinesi.
Tra padre e figlio esplode un’aspra polemica: è soprattutto il figlio che accusa il padre di aver accettato la logica degli israeliani: sorvegliare e punire, occupazione reale del territorio e controllo dei luoghi dell’educazione e della vita sociale. Ed è proprio questa oppressione sociale che ha spinto il figlio a prendere la via dell’esilio. Alla fine del film, quando i due protagonisti sembrano essersi riappacificati, la città di Nazareth rimane sullo sfondo con le sue inquietudini e sofferenze. Wajib di Jacir è uno splendido film che, come un’equilibratissima opera musicale, tiene insieme gli intricati fili di una storia complessa.
Senza retorica, attraverso una storia privata, racconta la storia collettiva di un popolo che noi occidentali spesso non conosciamo se non attraverso gli stereotipi comunicativi. Il viaggio urbano degli Shadi ci ricorda che la geografia delle città palestinesi e israeliane è abitata da un popolo che non corrisponde ad una religione fondamentalista e fanatica. Il film di Jacir ha il grande merito di far conoscere il popolo palestinese al di là dello stereotipo che lo dipinge sovente come un popolo senza storia o come un fanatico esercito orientale. Valorizzare la complessità storico-antropologica e il sincretismo religioso nel contesto israelo-palestinese può permettere il ritorno del dialogo al di là della feroce logica del terrorismo fondamentalista. Wajib può diventare così una testimonianza e una speranza di pace e di dialogo contro i due fanatismi: sia arabo che israeliano.