Michele Cecchini in America: persi nella lingua che non c’è

Livorno –  Il viaggio di Antonio Bevilacqua, ancora prima che di luoghi, è fatto di parole. Sono loro a trascinare questo emigrante toscano, originario della Garfagnana – di un paesino che giace ormai sul fondo di un lago artificiale – in una “terra di mezzo” in cui ogni appartenenza è smarrita, così come l’attendibilità, la verosimiglianza del proprio linguaggio, che nel caso di Antonio, imbarcatosi per gli Stati Uniti in cerca di fortuna, non è più italiano ma neanche americano.

Michele Cecchini, autore del romanzo (il suo secondo) “Per il bene che ti voglio” (Edizioni Erasmo), di cui Bevilacqua è protagonista, così scrive di quel limbo geografico-fonetico in cui questo personaggio dolce e inquieto, ammaliato dalla chimera del cinema (il camaleontico business del “muvinpicce”, storpiatura di “moving pictures”), finirà per perdersi – forse – inesorabilmente: “Questa è una storia di partenze e di vie di fuga verso una terra di mezzo dove, per trovare se stessi, si è costretti a spogliarsi delle parole e dell’identità, fino a rinunciare alla propria persona e divenire un’ombra, un punto luce”.

Lucchese di nascita (1972), livornese d’adozione, docente di materie letterarie, anche Michele Cecchini sta per partire per l’America (Stati Uniti e Canada). Sulle orme di Antonio, in un certo senso – o in più sensi. L’intreccio biografico-linguistico su cui “Per il bene che ti voglio” galleggia dall’inizio alla fine del viaggio, lo scavo poetico che la sua prosa dedica alla lingua dei “dagos” (l’appellativo riservato agli immigrati d’origine italiana), hanno spinto l’Istituto di Cultura Italiana di San Francisco, l’Università di Toronto e varie associazioni culturali (come la Leonardo Da Vinci Society di San Francisco) a saperne di più. Il tour di conferenze e incontri del professor Cecchini inizierà a breve. Dopo aver attraversato l’Italia (librerie, centri studio, musei dell’emigrazione, associazioni culturali) e le onde radio della trasmissione “Fahrenheit” (Radio Tre Rai), che nell’agosto 2015 l’ha ospitato come “Libro del giorno”, “Per il bene che ti voglio”, già alla quarta ristampa, e il suo autore saranno a Toronto il 17 marzo, a San Francisco il 22.

In occasione di questo viaggio, sul sito www.michelececchini.it sarà attiva una sezione denominata “Diario di Merica”: «Un blog  – spiega – concepito come diario di viaggio, all’interno del quale verranno via via pubblicate immagini dei luoghi attraversati, riflessioni a margine degli eventi, resoconti degli incontri con le comunità italo americane e altri racconti”.

Il sito del professore è un vero e proprio atto d’amore per la parola. Sia scritta che detta (al microfono): per Quiradio.it, nel 2014, in collaborazione con “l’illustrissimo prof. Ettore Borzacchini”, al secolo Giorgio Marchetti, dà vita al quindicinale radiofonico “Aperte virgolette”, poi diventato “Saccadé”. Un’esperienza, quella della radio, che per Cecchini resta «una palestra fondamentale».

Come fondamentale è stato l’incontro col Borzacchini, labronico-lucchese anche lui, satirista delizioso (un titolo per tutti: “Il Borzacchini Universale”, il Devoto-Oli della satira italiana), per anni graffiante firma del Vernacoliere, scomparso nel 2014. «Ci conoscevamo da tanto tempo. Aveva apprezzato il mio primo romanzo. Per il secondo, purtroppo, non c’è stato tempo. Ho imparato molto dalle nostre lunghe chiacchierate e poi dalle dirette in studio: Ettore era arguto, pronto, sapeva giostrare la conversazione su più livelli, capiva perfettamente dove saremmo andati a parare e si divertiva a ribaltare di continuo i termini del discorso, con quella capacità tutta sua di dosare registro aulico e registro basso, raffinatezze e espressioni gergali da “vecchia tròia del linguaggio popolare”, come una volta mi scrisse. Condividevamo l’amore per la parola e il Borzacchini suggeriva sempre di maneggiarle con cura: “La parola ti frega, è figlia di puttàna”, mi diceva».

L’amore viscerale che Cecchini nutre per la parola «deriva, credo, dalla loro funzione evocativa e creatrice: anche dietro quelle apparentemente più sgangherate e goffe, si nasconde sempre un mondo. E a me piace razzolarci. Basti pensare al termine NUVOLONI. Così venivano chiamati i francesi nel corso delle prime occupazioni napoleoniche a Livorno.

Il termine deriva dalla storpiatura di “Nous voulons… Nous voulons…” che scandiva la lettura in piazza degli editti con cui i francesi stabilivano le regole esigendone il rispetto. Ovviamente i livornesi, ribelli e sfrontati, verso le imposizioni non potevano che manifestare insofferenza. Anche attraverso la parola. Che si evolve, muta in continuazione, è impossibile da fissare e da standardizzare, ha una instancabile funzione creatrice. Tutto ciò mi incuriosisce e credo che almeno in parte questa inclinazione si rifletta sulla mia scrittura. Nel primo romanzo, “Dall’aprile a shantih”, uno stile elaborato serviva a togliere densità ai personaggi, a renderli quasi dei fantasmi. In questo secondo, “Per il bene che ti voglio”, il linguaggio che ho elaborato, l’italiese, è funzionale a raccontare una condizione esistenziale, quella degli emigranti di prima generazione negli Stati Uniti: gente che è finita in una sorta di limbo, perché ha perduto le radici che la ancoravano alla terra di origine ma ancora non è pronta per una piena integrazione in un mondo tanto diverso da quello di partenza. Sono coloro che non sono ancora e non sono più. Si trovano a metà strada, esattamente come la lingua che parlano, l’italiese. E credo che ci  somiglino parecchio. Ma le parole raccontano anche altro: ad esempio della difficoltà di integrazione. Pensiamo agli epiteti insultanti – ne sono stati contati un numero enorme cui gli americani ricorrono per indicare gli italiani. Il più utilizzato è DAGO. L’etimologia di questa parola è incerta, eppure tutte le ipotesi convergono verso un’unica direzione: quella del disprezzo verso gli “italiani di Merica”.

Intanto se ne registrano diverse varianti: ‘Black Dago’, ‘Dago Red’, ‘Chianti Dago’ e così via. Se qualcuno ha letto i romanzi di John Fante, si è imbattuto di sicuro in questo termine. L’etimologia anche in questo caso è incerta ma qualsiasi ipotesi è illuminante circa il ruolo degli italiani oltreoceano e la loro condizione. Il termine ‘Dago’ potrebbe derivare da ‘They go’, ad indicare gente che va e viene, che si sposta di continuo. ‘Dingo’ però è anche il cane selvatico australiano. Infine, ‘Dago’ potrebbe derivare dall’espressione ‘Until the DAY GOES’, cioè: ‘finché dura il giorno’; gli italiani avevano un contratto di lavoro a brevissimo termine: a giornata – ‘finché dura il giorno’, appunto».

Il mélange linguistique della “terra di mezzo”, uno, nessuno e centomila luoghi: «Ho pensato che questo strano, goffo miscuglio di italiano e inglese (per cui i nostri concittadini dicevano GIOBBO, da job, STRITTA, da street, fosse un fenomeno andato a poco a poco estinguendosi: via via, nel corso delle generazioni, l’integrazione, anche linguistica, sarà stata completa. Non è così. A settembre ho avuto il piacere di partecipare a Lucca alla cena che l’associazione “Lucchesi nel mondo” organizza annualmente per i loro concittadini che, in occasione della Festa di Santa Croce, arrivano in città da ogni continente. E in effetti, gironzolando per il locale tra una portata e l’altra, ti accorgevi che era proprio così. Sui vari tavoli delle circa 350 (!) persone che affollavano il ristorante campeggiavano le indicazioni della provenienza di ciascun gruppo. C’era il tavolo di Chicago, quello di Washington, di San Francisco (ovviamente), quello del Brasile, dell’Irlanda, dell’Australia, della Francia e via così, in una teoria sbalorditiva perché infinita. Come i tortelli al ragù dentro enormi vasconi faticosamente trasportati dai camerieri. Non nascondo che partecipare a questo evento mi ha parecchio emozionato. Perché un conto è sapere di concittadini sparpagliati in ogni angolo del globo, un conto è trovarseli davanti e guardarli in faccia.

La sensazione che ne ho ricavato è stata quella di trovarmi davvero di fronte a gente ‘di frontiera’, a dei sopravvissuti, a degli individui a metà. Quasi tutti anziani, nei loro volti e nel portamento non si sarebbe potuta individuare una reale identità: non più italiani, non ancora forestieri a tutti gli effetti. Una sorta di marziani, perfettamente consapevoli però di dove si trovassero e cosa facessero lì. Mi sono avvicinato al tavolo di San Francisco e mi è stata presentata un’anziana signora. A 89 anni suonati ha preso l’aereo ed è arrivata a Lucca per l’occasione, rammaricandosi, tra l’altro, del fatto che mancava a questo raduno da cinque anni.

“Ora per gli anni prossimi vedrò come fare”, ha aggiunto. Mi ha raccontato di essere partita da Lammari a 22 anni. Quando ci siamo salutati, mi ha rivolto un meraviglioso: “Piacere della conoscenza!”. Ma l’esempio più gustoso di italiese l’ho avuto al bagno. Sì, proprio lì. Ero in coda. Il tipo che è prima di me esce ed è il  mio turno. Sulla porta, però, il tipo mi avvisa del mancato funzionamento dello sciacquone. Indicando la tazza, dice: “L’acqua non lavora”. Non credo che scriverò altro che ha a che fare con gli italoamericani, ma se mai dovesse capitare, l’acqua non lavorerà di sicuro».

 

 

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