“Ve lo do io il Duce”: lectio che più “magistralis” non si può dello storico ecclesiale Alberto Melloni dal pulpito tricolore davanti alle massime cariche dello Stato; “dal popolo delle Costituzioni alla plebe turpiloquente del web”.
Eccovi tutta la prolusione che colpisce il cerchio dei moralisti della nostalgia e la botte dei terapeuti. Contro il “vento fascista” investire sulla cultura e sull’alfabetizzazione religiosa.
In Europa, per molte generazioni la cultura storica è stata parte fondante del bagaglio interiore di tutte le classi dirigenti. L’esperienza totalitaria, i partiti e le élites avevano creato l’abitudine di inquadrare entro cornici di lungo periodo decisioni, problemi, visioni del mondo e della società, anche quando quel ricorso era svilito dal conformismo ideologico e retorico.
Oggi salvo pochissime eccezioni (alcune delle quali qui sedute) quella cultura è tramontata. E dunque vediamo meglio che la capacità di interrogarsi sulle conseguenze di lungo periodo di quei presenti lontani che chiamiamo passato, era l’antidoto alla odierna riduzione del discorso pubblico ad un presentismo smemorato. Che a suon di scorciatote propagandistiche ed economia del Cepu trasforma il “Popolo” delle costituzioni nella plebe turpiloquente del web, e assiepa attorno alla ghigliottina digitale nuove tricoteuses – simili alla mitica Madame Defarge di Dickens (“imbued from her childhood with a brooding sense of wrong”) – che ad ogni testa che cade festeggiano la dittatura della ringhiose paure 4.0.
Unico farmaco, di non provata efficacia, contro questo Alzheimer storico-politico e il totalitarismo delle pace, è rimasto quello degli anniversari: che obbligano a connettere epoche che non si riconoscono più figlie l’una dell’altra e apre piccoli forellini nel muro nero della ignoranza collettiva e disegnano costellazioni, di cui dirò alla fine.
Così in questo 2018 del tricolore vorrei limitarmi ad interrogare alcuni anniversari, a partire da quello del 7 gennaio di cinque anni fa: quando a Parigi in un mercatino Kosher, in strada e a Charlie Hebdo venne perpetrata una serie di delitti infami che hanno bestemmiato la vita, il Profeta e le libertà che ci sono care. E ad altri anniversari domanderò di ricordarci qualcosa di ciò che, collocato alle nostre spalle, e ci consegna responsabilità ineludibili per il domani. Nella festa della bandiera inizierei dunque dal ventesimo anniversario dell’altra bandiera che la legge 22/1998 impone figuri accanto al tricolore: la bandiera europea.
Una bandiera che non ha niente di speciale: anzi, ad essere precisi, non è nemmeno “sua”. La bandiera
dell’Unione che tutti conosciamo fu adottata dal Consiglio d’Europa fra il ’50 e il ’55 a spese di ipotesi in sé più gloriose. Il Consiglio non adottò l’antica bandiera inventata negli anni Venti del conte Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi la cui croce era irricevibile per la Turchia. Scartò senza discuterla quella del Movimento federalista europeo con la sua lunga “E” verde; e alla fine scartò anche il bozzetto presentato con un po’ di fretta da François de Menthon il 25 settembre 1953: una bandiera azzurra con 15 stelle a rappresentare i paesi membri. Quindici perché c’era la Saar occupata: cosa irricevibile per la Germania Ovest. E così dalle due alternative finali, con la bandiera di Salvador de Madariaga, con le 15 stelle messe sulle capitali e quella di Arsène Heitz, con le 15 stelle in cerchio uscì a dicembre 1955 una bandiera con 12 stelle. Come le virtù dell’etica aristotelica, si disse per darle un tono. Senza saperlo era la bandiera della pace.
Quella di Aldo Capitini, portata nella prima marcia Perugia-Assisi, con i colori dell’arcobaleno (disegnata da James William van Kirk, pastore metodista dell’Ohio nel 1913) sarebbe infatti diventata la bandiera della pace che non c’è. Ma la bandiera azzurra è la bandiera della pace che c’è stata e c’è nel continente che ha bevuto per secoli il sangue della guerra. L’Europa non è la trovata propagandistica (pro o contro) di chi non ha un’idea: è “il treno che passa una volta sola”, come dice Romano Prodi. È l’aggregato di culture e di libertà più vasto della storia nato senza imperatore e senza dittatura di partito, che ha scommesso sulla fragile capacità delle democrazie e dei diritti di crescere è che – come ha ricordato anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno di cui lo ringraziamo – essa ha accompagnato il più lungo periodo di pace della storia europea.
La generazione di coloro che hanno incassato i dividendi della pace (Andreatta), si illudono esisterà per sempre, qualunque cosa si dica, qualunque cosa si faccia o non si faccia. Il che non è vero.
PACE O FASCISMO
L’Europa è stata l’esito prodotto storico di una cultura di pace che ha storicamente preso forme politiche. E la crisi che oggi la attraversa, al termine di un ciclo di decrescita infelice che sembrava non finire mai, è il prodotto storico di una incultura politica: dentro la quale soffia un vento di tempesta.
Due avvisaglie. Due eventi ne hanno preconizzato la forza. Il primo è stato il referendum del giugno 2016 su Brexit. Un suicidio così complicato che, come in una commedia di Eduardo de Filippo recitata in inglese, chiedeva a tutti di fare a tempo debito la cosa sbagliata: ai leaders di lanciarsi con credula audacia verso il disastro; all’elettorato giovanile (the bamboccions) di astenersi; alla macchina bruxellese di fornire sordità e cecità che andrebbero curate da agenzia sulla semplificazione da collocare a Lourdes. Forti di questo gli interessi internazionali contrari all’Europa che sempre aiutano chi li asseconda con parole, opere ed omissioni, hanno “sdoganato” l’idea che l’Europa possa essere decostruita facendo dimenticare che dopo l’Europa non ci sono gli stati, ma la guerra, e dopo l’Euro non ci sono le monete ma la guerra. Il secondo evento è stato il referendum dell’ottobre 2017 dell’indipententisme català. Che legittima il nazionalismo mignon, e dimostra come forze politiche irresponsabili possano coalizzarsi per produrre becchime per allocchi e convincerli che tutti problemi abbiano soluzioni semplici, anzi una sola semplice soluzione: perché hanno un colpevole, collettivo o individuale – la Spagna, l’islam, la casta, l’immigrato – da accusare in una pedagogia della violenza che è destinata a funzionare.
La fragilità della pace:
cito questi due eventi in sé reversibili, come segnalatori di un vento gelido, tempestoso, irreversibile. Se chiudete gli occhi, se tendete l’orecchio, anche qui nell’Italia Cispadana lo sentite soffiare.
È il vento autoritario, antisemita, xenofobo, qualunquista, nazionalista, che ha le sue teste di ponte ortodosse. Scende lungo il canale dei paesi “cattolici” dalla Polonia, giù in Ungheria, Slovacchia, Cekia, Austria, Lombardo-Veneto e punta verso Roma.
È il vento che ha fatto diventare le vittime della guerra e della fame l’incubo di paesi giganteschi. Che ha riciclato il grande arsenale propagandistico della paura del comunismo, che almeno una ragion politica ce l’aveva, in un armamentario antimigranti. Che fa giocare con gli autoblindo al Brennero. Che bestemmia il rosario e lo usa come un’arma sui confini polacchi. Che lascia solo Ronald Lauder a battagliare contro le discriminazioni di Jobbik.
È il vento che scuote sistemi democratici diversi fra loro per età, composizione demografica, strutturazione dei partiti. È un vento che credo si possa chiamare così: fascista. Termine che non prendo dalla storia italiana, ma dalla stele posta davanti alla casa natale di Adolf Hitler a Braunau am Inn (Für Frieden, Freiheit und Demokratie, nie wieder Faschismus. Millionen Tote mahnen).
Non uso questo termine per pelati e vigliacchi picchiatori da stadio e per codardi energumeni del web al fine di suggerire un impossibile parallelismo con il totalitarismo degli anni Venti: il fascismo storico aveva caratteri, contesti, supporti, obiettivi che non sono replicabili e vanno distinti dal vecchio qualunquismo cialtrone che popola il discorso pubblico e dalla sua deriva violenta.
Lo uso nel senso che trovate, ad esempio, in una una lettera di Dossetti a Piccioni del febbraio 1948 nella quale il costituente ricorda che non sono le nostalgie, ma un insieme di atti politici che favoriscono
ricostruirsi progressivo di forze antiche, di situazioni superate, di influenze e strutture sociali, realizzanti l’aspetto più sostanziale e più negativo del vecchio regime politico ed economico.
Non replica, ma sostanza: che, specie in Italia, pone un dilemma semplice, che lascio enunciare ancora ad un colloquio Dossetti, nel 1951: Chi vuol capire la situazione italiana oggi si deve mettere a discutere di questo o quell’aspetto particolare, o delle singole riforme? No, non si può riassumere così la situazione politica italiana. Essa non può essere misurata sul metro del nostro atteggiamento in ordine a questo o quel problema. C’è una grande scelta, la quale include anche alcune di queste scelte ma dà ad esse un indirizzo tutto particolare e di ben più vasta portata: la grande scelta è questa: fascismo o non fascismo […] Si tratta di capire la sostanza vera, la sostanza storica del fascismo, ricorrente al di là delle accidentalità. Di fronte alla “sostanza storica” che soffia in questo vento dunque, la bandiera Europea è il sottile velo azzurro che ci separa dall’abisso bellico, che anche nel XXI secolo è capace di ingoiare intelligenza e vita come ha fatto nel secolo crudele che ci siamo lasciati alla spalle.
Pluralismo o razzismo:
Per renderci conto di quel valore europeo della pace e del valore della pace europea, potrebbe soccorrere un altro anniversario che cade quest’anno. Quello dell’inizio della guerra dei trent’anni, scoppiata nel 1618 e durata fino ai trattati di Westfalia del 1648 che esauriranno il grosso delle guerre di religione dell’Europa (per ritrovarne bisognerà arrivare al Novecento con le guerre dell’Ulster, dei Balcani e dell’Ucraina). Le guerre di religione sono state inimmaginabilmente sanguinose e in termini demografici (Scherr dice che 3/4 degli europei morirono). E hanno provato che per smettere di ammazzarsi con la determinazione che ha chi ammazza per motivi teologici, bisognava aver pietà di Dio e liberarlo dal fardello di sangue che gli uomini gli addossano dai tempi di Caino, il fratricida che scarica su Dio e sul suo gradimento (äòù) la causa del suo delitto. Nel 1625 Grozio diede a questa pietà una forma giuridica: regolare la cosa pubblica senza tirare in mezzo il Cielo, “etsi Deus non daretur”.
Una via che la storia europea declineranno come laicità, secolarità, libertà religiosa e insegna che quando la dimensione plurale della società viene messa in discussione si aprono le porte dell’inferno; e che dunque il pluralismo, anche religioso, non è una concessione, ma un bene.
È compatibile questa visione diventata europea con il tracimare della “fitna” e la crescita di un nuovo “piccolo gruppo di assassini che attenta alle nostre libertà democratiche” (L. Lama) e arruola al terrorismo nel nome di un simulacro dell’islam?
Sì: è compatibile ed è l’unico rimedio che non compromette le libertà. Rimedio al quale mi permetto di aggiungere un corollario. Nessun problema di sicurezza dei prossimi cinque giorni può essere risolto senza un’azione di intelligence; nessun problema dei prossimi cinque mesi senza forze dell’ordine capaci. Ma nessuno dei problemi dei prossimi cinquant’anni può essere risolto senza mettere mano alla risorsa sapere e alla cura di un analfabetismo religioso dilagante che distorce i linguaggi e riduce le politiche del pluralismo religioso all’asta delle intese. Alla costruzione di una società plurale, infatti, non bastano i buoni sentimenti che portano capi religiosi ad esibirsi in baci/abbracci spesso sinceri. Serve un sapere che consegni a tutti i credenti una comprensione più profonda dei propri patrimoni e aprano quei lenti percorsi di riforma che non servono per accomodarsi alla modernità, ma per onorare le proprie ricchezze interiori. L’unica alternativa è accontentarci della arroganza di chi promette una società del sospetto, della discriminazione, dell’espulsione, del disprezzo. Noi quella società l’abbiamo già avuta.
Le leggi razziste: era la società delle leggi razziste del 1938 – il terzo anniversario che vorrei citare oggi – leggi della persecuzione, dei diritti degli ebrei che sono state premessa, prodromo e fondamento della persecuzione delle vite degli ebrei e dello sterminio, nella perpetrazione di un delitto in cui fatichiamo a riconoscere con la stessa intensità morale vittime italiane, perpetratori italiani, giusti italiani, senza pastoni autoassolutori. Non si tratta di farlo per evitare quella immedesimazione a costo zero con le vittime della Shoah che pure va evitata. Non si tratta di disortografie legislative (la legge sulla memoria per un paradosso non casuale non pronuncia mai la parola fascismo) che pur ci sono. O indulgenze protocollari (nella anticamera di Palazzo Chigi c’è la foto del duce, che forse non va tolta, ma che chi porta la stigmate della persecuzione ha il diritto di rompere, perché almeno o un vetro rotto lo distingua da Cavour e da De Gasperi).
Si tratta di assumerci una responsabilità europea, davanti al rimontare di un razzismo come sempre strisciante nei suoi esordi. E che l’Italia ha rifiutato in modo irrevocabile, nella sua costituzione.
COSTITUZIONE O CIARLATANERIA: di cui ricordiamo i settant’anni dalla sua entrata in vigore.
La costituzione come patrimonio. La costituzione è stata infatti la risposta a tutto ciò che era conseguenza e premessa del regime. Piccolo problema, come si consegna oggi la costituzione e a chi?
C’è un ritornello non solo italiano, ma tipicamente italiano che davanti a problemi complessi risponde serioso che serioso “bisogna iniziare dalla scuola”. Ritornello non sbagliato, ma statisticamente sembra riapparire ogni volta che ci si vuol liberare di una questione senza prenderla sul serio.
La costituzione non si consegna oggi nelle scuole (che pure farebbero bene a leggerla di più). Si trasmette la dove ci sono donne e uomini “ri-costituente/i”, capaci di impersonare nella esigente semplicità dei doveri quotidiani “il patrimonio, di valori, di principi, di regole”, – ci ha detto il Capo dello Stato con la precisione del giurista – che sono l’antidoto contro coloro che esercitano il mestiere più contrario alla costituzione. Mestiere vietato, ma che è accessibile tutti – politici e cittadini comuni, giornalisti e lettori: il mestiere del ciarlatano. In un regolamento del Regno d’Italia (Es. TU 18 giugno 1931, n. 773): una definizione che ha del profetico: Sotto la denominazione di “mestiere di ciarlatano” [ai fini dell’applicazione dell’art. 121, ultimo comma, della Legge], si comprende ogni attività diretta a speculare sull’altrui credulità, o a sfruttare od alimentare l’altrui pregiudizio. Come gli indovini, gli interpreti di sogni, i cartomanti, coloro che esercitano giochi di sortilegio, incantesimi, esorcismi, o millantano o affettano in pubblico grande valentìa nella propria arte o professione, o magnificano ricette o specifici, cui attribuiscono virtù straordinarie o miracolose.
Vuoti: contrastare i ciarlatani con un contegno costituzionale e (ri)costituente, non vuol dire aver paura del conflitto: ma restringere il campo, come insegna Giorgio Napolitano, a chi è in grado di svilupparlo con tutta la astuzia, la spregiudicatezza, la vis polemica necessaria, ma è capace di contenere la più radicale divergenza di opinioni politiche fra coloro che si riconoscono parte di una repubblica che vuole
[rimuovere gli ostacoli] di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Nella nostra storia politica recente tale “rimozione” degli ostacoli è stata affrontata, da destra e da sinistra, come un’azione di riformismo (espressione che, come tutti sanno, viene dal lessico politico inglese del XVIII per indicare l’adeguamento le leggi – in quel caso le leggi sul suffragio universale – ad una idea di società).
Eppur alcuni dei grandi nodi irrisolti del paese, non si riducono ad una de-formatio che chiede re-formatio: sono vuoti che richiedono di essere riempiti da idee di lungo periodo, quasi si dovesse ritornare a Rattazzi, come suggerisce Patrizio Bianchi. Fra i primi vuoti (non so se in campagna elettorale se ne discuterà a fondo) credo che almeno cinque siano autoevidenti: la macchina dello Stato – che quando funziona è la sola autorità anticorruzione efficace – come insieme di servizi resi a tutto il paese in modo uniforme, la politica estera, in un mondo dove non c’è più “il” bipolarismo perché ce ne sono tanti, la politica industriale ed economica, che non si crea con piagnistei e aiutini, le lotta alle mafie che, liberate della vecchia guardia pistolera e bombarola, e sono un attore finanziario globale, la ricerca come produzione del sapere che non si fa col moralismo dei meriti, ma con strategie di di protagonismo europeo.
Conclusione: col che (lasciando da parte molto altro come il centenario di Luigi Pareyson del “solo la libertà precede e può precedere la libertà”) si tornerebbe al discorso sulla fine di una cultura storica.
Nulla è più inutile del moralismo corporativo di chi lamenta la fine di una cultura e dunque non mi lamento. Nulla è più pericoloso della retorica che pensa di sostituire le culture con l’ottimismo terapeutico. Il poco o niente degli anniversari può aiutarci a cercare costellazioni nelle quali leggere il nostro tempo e la sua attesa, come dice la penultima tesi sulla storia di Benjamin: Nessuno stato di fatto è, in qualità di causa, già perciò storico. Lo è diventato, postumamente, attraverso circostanze che possono essere distanti migliaia di anni da esso. Lo storico che muove da qui cessa di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell’adesso, nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico.
In questo tempo in cui l’incendio della guerra brucia su un lungo arco, tutt’attorno a noi, potremmo forse ricordare che la pace di cui la bandiera europea è il fragile segno è stata una di quelle schegge, e che il tricolore che le sta accanto nelle nostre cerimonia né è custode, custodito dal proprio compito.
(Alberto Melloni)