Firenze – Pezzo di grande impatto scenico e psicologico quello presentato dalla coreografa francese Maguy Marin al Festival Fabbrica Europa 2014. In prima assoluta, “Singspiele” è un eccellente esempio dei risultati della ricerca sulla condizione umana, sul corpo nel suo essere solo e in relazione con gli altri, che l’artista sta perseguendo da anni con successo crescente.
Sulla scena compaiono solo degli abiti appesi a tre attaccapanni, con dei volumi cubici che contengono altri indumenti e accessori. Un unico personaggio, David Mambouch, attore e autore di teatro e di cinema, sta seminudo seduto accanto a uno di questi attaccapanni. Il volto, però, non appartiene al suo corpo. Un supporto che tiene con la bocca gli permette di cambiare il volto innumerevoli volte. Si tratta di fotografie (da sottolineare la grande bravura tecnica del fotografo Benjamin Lebreton) che sono prodotte esattamente con le dimensioni della testa e del corpo del personaggio.
L’effetto è sorprendente. Sullo sfondo bianco il bianco supporto tende a svanire, e i volti in bianco e nero si adattano perfettamente alle proporzioni del corpo in movimento. Le facce che si alternano con studiata cadenza appartengono a sconosciuti o a personaggi maschili e femminili più o meno noti (per esempio Stan Laurel, fra gli altri mi pare che ci sia anche Ramses II) , ma quello che conta non è la personalità riconoscibile. Singspiele è una poesia vivente della coerenza e dell’identità, dell’angoscia dell’uomo contemporaneo di trovare un equilibrio fra i suoi stati d’animo e la sua relazione con gli altri. Di dare una forma e un colore “sociale” a ciò che sente di essere: felice, seduttivo, intellettuale, professionista, massaia, pensionato, depresso etc., nell’alternanza fra quello che sente e il suo ruolo nella società.
Percorrendo la scena da destra verso sinistra, questo “fregoli” dell’anima cambia le vesti per renderle corrispondenti a ciò che esprime il volto. Solo in due momenti svela la sua vera natura di “povero diavolo fragile e inerme” che sta dietro quei volti espressivi e impostati: quando Mambouch, seminudo, si ferma un momento, si toglie di bocca il supporto e beve un po’ d’acqua, il gesto più naturale e più innocente che si possa fare. La colonna sonora di questa pièce, estremamente discreta, è costruita con frammenti dell’ambiente sonoro urbano che ci circonda, come un brusio che accompagna le nostre esistenze di impenitenti trasformisti. Eppure questi volti in qualche modo “cantano”, cantano il loro ruolo che rappresentano, che “giocano”, come ci spiega il titolo tedesco scelto dalla Marin.
A noi spettatori vengono in mente altri grandi del teatro, artisti dell’anima che hanno lavorato sul tema della maschera e del volto. Come Ingmar Bergman: Quando ci vede alla luce delle nostre esibizioni e rappresentazioni, la gente crede di amarci – ha detto una volta – Ma se ci mostriamo senza maschera, siamo tramutati in men che niente.