Firenze – La sede dell’Associazione Donne In Movimento è al pianterreno, in un complesso di palazzi alla periferia nord. Ogni poco il rombo degli aerei che atterrano e decollano fa tremare i muri, ma ci si abitua facilmente. Il rumore costante si assimila al silenzio. Una donna sulla sessantina mi apre masticando qualcosa di morbido, forse del pane. Ha i capelli grigi raccolti in una coda scomposta e negli occhi la serenità di chi cammina tra le stanze di casa, in luoghi conosciuti a memoria. Mi indica l’ufficio di Nuccia in fondo a un lungo corridoio. Sulla porta, man mano che mi avvicino, si fa nitido un cartello di divieto d’accesso “ai non autorizzati”, ironico soltanto in parte.
Nuccia non è molto alta e cammina a fatica. Si definisce “una zoppa” che se si arrabbia non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Ci vuole polso, a gestire un’associazione come quella. Per confrontarsi ogni giorno con le enormi difficoltà di donne in crisi, senza venirne schiacciati. Senza restarne impigliati.
Il primo argomento di cui parliamo è la dignità. Le donne che arrivano nei locali dell’associazione sono spesso deprivate di tutto: scappano da un marito violento, da mestieri pericolosi, da una vita che non si sono scelte. Arrivano (tramite il comune e gli assistenti sociali) in questa struttura autogestita, dieci posti letto, colazione, cena e servizi garantiti. A tutte vengono chiesti 5 euro al giorno: un contributo necessario per la sopravvivenza della casa di accoglienza e dell’associazione, ma anche simbolico, perché “non devi aspettarti che la dignità te la diano gli altri”. Spesso le persone arrivano con la certezza che sia tutto dovuto, che le loro storie parlino da sé e implichino il bisogno di un aiuto costante e gratuito. Per Nuccia non è mai stato così: si porta dentro l’esempio di sua madre, siciliana, abbandonata dal marito con 8 figli, che “lavorava dalle 5 del mattino alle 8 di sera, bussava in tutte le case della città per chiedere se avevano bisogno di qualcuno che puliva le scale, anche per pochissimi soldi. Noi sorelle da piccole abbiamo attaccato migliaia di etichette sui vestiti.” Le si illuminano gli occhi quando ne parla. E proprio perché Nuccia viene dal basso e sa cosa vuol dire essere poveri, è in grado di comprendere le persone che adesso vuole aiutare: “molti vengono definiti dei disperati e si convincono di esserlo. Non fanno niente per cambiare le cose”. Una perversa teoria dell’etichettamento da cui queste donne possono e devono emanciparsi. Le donne di Nuccia, come lei stessa dice, hanno perso la strada. Per ritrovare un orientamento è necessario imparare ad autogestirsi, ad agire di squadra, e capire che “se si separano, si trovano da sole”. Anche per questo nella struttura non esistono camere singole. La convivenza è il primo strumento per fare rete e integrarsi, seppur lentamente, nel tessuto sociale: il primo strumento per conoscersi e magari, una volta fuori, per decidere di prendere in affitto una casa insieme, di unire le forze.
Ci sono casi in cui le donne non vogliono andarsene, da lì. Come R., picchiata e minacciata di morte dal marito, che solo con Nuccia si sente a casa: “l’unica persona che mi chiede Come stai?”. Ma Nuccia non cede ai sentimentalismi. Anzi, cerca di allontanarla, di non farla affezionare a lei e a questo luogo. Anche se non è facile. “Il marito è venuto a cercarla, sa dove si trova. Pensavamo di mettere del filo spinato o qualche altra protezione. Non è il primo caso.”
Nella ricostruzione di una vita, il lavoro manuale ha un ruolo centrale. L’ufficio dell’associazione è pieno per due terzi di stoffe, vestiti, borse, dipinti e sculture. “Spesso ci chiamano quando ci sono delle case da svuotare”. Loro prendono tutto: ci arredano la casa oppure sistemano i vecchi oggetti, smontano e scuciono e creano altre cose da fare invidia alla mostra dell’artigianato. Adesso hanno in progetto di creare una piattaforma online per vendere il frutto del lavoro di queste donne e aiutarle a guadagnare qualcosa. “È bello anche imparare da loro, non solo insegnare. La multietnicità permette la combinazione di mani diverse, di fantasie diverse, ed è necessaria soprattutto adesso in ambito europeo. L’unico modo per salvare la nostra identità è collaborare insieme”.
La missione di Nuccia – e del marito che le sta accanto da quarant’anni -, comporta anche molte difficoltà: “tra poco qui ci sarà una psicologa fissa, per le donne, certo, ma anche per me. Se non parlassi di quello che vedo, di quello che succede, impazzirei”. E poi c’è il rischio costante “che le persone che aiuti ti facciano del male”, com’è successo recentemente: un uomo l’ha minacciata di morte più volte, “mi ha detto cose indegne. Io per proteggermi gli ho rovesciato un tavolo davanti. L’ho mandato via, e dopo questo episodio ho deciso che avrei accolto soltanto donne. Non siamo ancora pronti per far convivere donne e uomini. Le donne sono troppo succubi”. Nuccia pensa che quest’uomo irrispettoso, che appunto ha sempre avuto un forte ascendente sulle donne, per vendicarsi abbia indotto una ragazza a sporgere denuncia contro di lei. Nuccia è coinvolta in un processo penale per estorsione a danno di una ospite della struttura, ma non ha paura. “Dice che le ho estorto 8.500 euro, ma se avesse avuto tutti quei soldi non avrebbe avuto bisogno di essere accolta qui.”
Prima di andare, faccio un giro nella casa. Un lato del corridoio è coperto da una grande libreria con testi per tutte le età. Le stanze ospitano da un minimo di due a un massimo di cinque letti. In fondo, chiusa a chiave, c’è la cucina: “facciamo da mangiare tutti insieme. Proviamo anche a sperimentare. L’altro giorno abbiamo fatto il cous cous con il riso, ed è venuto buonissimo”.
Nuccia vive nella struttura dal lunedì al venerdì. Amministra, insegna e impara molto. Dice che ha fatto una scelta di vita. Di non avere niente per dedicarsi agli altri. Vuole lasciare alle donne la dignità e la fiducia nel poter fare le cose, perché devono scrollarsi di dosso questo vittimismo. E unirsi.
“Anche quella, l’abbiamo fatta noi”. Prima di salutarci, Nuccia indica una scultura moderna, un mappamondo sormontato da un busto di donna: “la donna è in cima al mondo, vedi?”
“Ogni tanto cade da lì, se qualcuno la urta”, aggiunge il marito.
“Però poi ci torna, in cima. Più forte di prima”.
Foto da http://www.gruppo2009.it/