Firenze – Nel cortile di Palazzo Strozzi , entrando dalla piazza, ve lo trovate giusto di fronte: un vecchio furgone Citroen, con all’interno, foto dei viaggi compiuti e voce narrante. E’ quello, ormai mitico, con il quale Marina Abramovic e l’allora compagno Ulay, negli anni ’70 si spostavano per tutta Europa. Casa, atelier e mezzo di trasporto insieme. E nella celebrazione dell’artista, in atto ormai da anni, anche questo è diventato reliquia: documentazione d’arte e oggetto d’arte al tempo stesso: tanto da far parte della collezione del Museo d’arte contemporanea di Lyon in Francia.
E’ l’ incipit di una mostra, Marina Abramovic, the cleaner, che con oltre cento pezzi e in in collaborazione con altre istituzioni museali – Stoccolma, Humleabaek e Bonn – ricostruisce più di mezzo secolo di attività di colei che affettuosamente viene definita “la mamma della performance”. La vicenda è nota: la nascita nella Belgrado di Tito nel ’46, il fortissimo senso dell’impegno che proviene anche dai genitori eroi della Resistenza, di contro al forte misticismo che viene invece dalla nonna materna; gli studi all’Accademia locale e quindi a Zagabria tra il ’65 e il ’73, dove lei è una delle pochissime donne; alcuni incontri fondamentali come quelli con Beuys e poi con Herman Nitsch (e ancora una volta i’impegno e il misticismo), ed ecco che la giovane pittrice diventa performer.
L’Italia, con le Biennali e il suo patrimonio d’arte è una sorta di seconda patria e nel ’74, prima a Milano e poi a Napoli, ha un fantastico esordio. A Napoli infatti, da Morra, realizzerà Rhythm 0, dove si darà letteralmente a un pubblico, quello della galleria, autorizzato a fare di lei quel che vorrà. Nel ’77 invece a Bologna, nella neonata Galleria comunale d’arte moderna, nell’ambito di una rassegna sui giovani talenti internazionali, ecco il suo Imponderabilia. Lei e l’artista tedesco Frank Uwe Laysiepen, per tutti Ulay, conosciuto due anni prima a Amsterdam a un incontro di artisti performer, stanno nudi ai lati della porta d’ingresso, e il pubblico per entrare deve strusciarsi a quei due corpi: è il corpo dell’artista che introduce all’arte, ed è questione squisitamente concreta; anche se all’interno poi, una sorta di mappa concettuale, schematizza l’imponderabilità delle relazioni umane …
Da qui in poi, fino all’88, Marina e Ulay, con il loro furgone Citroen, diventano una straordinaria coppia che unisce in una trama di rimandi fittissima, vita e lavoro. Nascono performance mitiche come quelle sulla loro relazione stessa, la serie Relation Works, seguono i viaggi e i lunghi soggiorni in Australia, in India e poi in Cina e in Brasile, alla riscoperta di un sapere antico, preindustriale, tra lama tibetani, aborigeni e meditazione Vipassana. L’idea forte, che condividono con altri artisti in quegli anni di grande fermento, è quella di un’arte come esperienza del vero, del contatto, del calore, della fatica, del dolore, dell’immobilità, della resistenza, dell’energia del pubblico … In un momento in cui tutto, politica, informazione, gerarchie e istituzioni religiose, è messo in discussione l’unica verità alla quale si può fare ricorso è quella del proprio sentire, del proprio corpo e delle relazioni che questo può istituire. Si tratta di tornare a unire mente e corpo, di recuperare l’arte alla sua essenza relazionale. Contro un sistema economico che l’ha trasformata nella ennesima produzione di oggetti di lusso o in favola consolatoria. Come il teatro tradizionale, che loro detestano: perché fingersi Romeo o Giulietta indurre il pubblico a crederlo? Meglio vivere, in galleria, la verità delle situazioni.
Certo, la performance, che proprio Marina Abramovic porterà da pratica underground a grandioso incontro popolare ( nel 2010, per il suo Artist is present a New York, dove lei semplicemente incontra con lo sguardo il pubblico del MoMA, si formarono code degne di una apparizione della Madonna ), ha il problema della volatilità: si dà in quel momento e poi scompare. Così, ecco, per tentare di ovviare a questo, un lungo lavoro sulla fotografia, sui video con opera realizzate appositamente per questo mezzo; ma ecco anche il reenactment, la rimessa in atto di questa. Nel 2005 lei stessa lo aveva praticato, reinterpretando al Guggenheim di New York, Seven Easy Pieces. Sette celebri performances, di Valie Export, Acconci, Beuys, Naumann, Gina Pane e lei stessa, rimesse per così dire in atto. Omaggio a artisti stimati e riesecuzione come avviene nella musica.
Così è per questa mostra di Palazzo Strozzi che occupa tutto lo spazio, dalla ex Strozzina nel seminterrato al piano nobile. Cento pezzi, si diceva, all’insegna della pulizia e dell’ordine. The cleaner infatti, il titolo, indica proprio il gesto di fare pulizia, conservare quel che serve, buttare il resto. Molte foto, molti video, molte ricostruzioni di ambienti, una voce narrante, di lei, che accompagna ovunque; e un po’ di performance rimesse appunto in atto. A cominciare dalla porta di ingresso dove due giovani, un ragazzo e una ragazza, vi accolgono nudi sugli stipiti perché possiate entrare.
L’avventura di Marina Abramovic è stata, ed è, straordinaria: dagli esordi barricadieri alla celebrità molto pop di oggi. Questa mostra, una corretta ricatalogazione dei punti salienti, compresi alcuni episodi in Santa Maria del Fiore, giusto accanto alla Pietà michelangiolesca da lei citata più volte nei suoi lavori, è una occasione per rifletterci su. E non è difficile pronosticare un ennesimo successo, molto pop anche questo.