Andiamo a mangiare qualcosina, dice. Fuori casa; beninteso, perché in casa è tutta una lunga e triste processione di scongelati e ricongelati, e termo trasformati in microonde, forni iper tecno ventilati con più programmi di un razzo vettore il cui destino è rendere appena commestibili precotti e quasi cotti contenenti cose che le nostre nonne non avrebbero mai riconosciuto come cibo vero; e stiamo parlando di vegliarde per le quali le creste dei galli e i testicoli delle capre potevano a pieno diritto galleggiare nel minestrone coi legumi. No; “mangiare” è, per l’italiano medio, quello che si bulla di avere la cucina migliore del mondo (Scavolini, più spesso Ikea), sinonimo di prendersi su e controllare, con la faccia di chi “no, io mai al mondo” il numero delle stelline attribuite da Trip Advisor (cinque al massimo, guarda a volte il caso) per recarsi in deliziosi posticini che poi, nel 90% dei casi, ti offrono le stesse identiche cose che, tolto il tempo di cambiarsi, pettinarsi, macchinarsi e tutto con molta meno fatica avresti potuto senza problemi mettere in tavola pure tu.
E con una spesa, ovviamente, irrisoria. Sì, perché oggi ci sembra normale prendere armi e bagagli, nelle feste comandate e a ridosso delle stesse – un po’ come faceva Gaber col sesso: il sabato sera, così domani non si lavora, ce lo possiamo permettere, che è stancante – e andare a immolare quei venti, venticinque, trenta Euro a cranio in posti in cui il rapporto con la cucina è mantenuto vivo dalla presenza dei tavoli apparecchiati e da qualcosa che misteriosamente avviene dietro le quinte. Ovvero, l’immersione di tortelli freschi di fabbrica in pentoloni di acqua bollente, l’impiattamento di arrostini che gridano dal vassoio la preghiera di essere uccisi, anziché tornare indietro dove finirebbero per far parte di qualche ragù o polpettone o, raramente, ripieno; lo scongelamento di torte pronte in scatola tanto innocue quanto prive di personalità e, se è per questo, di rischi allergenici. Girate pure quel centinaio di localini spuntati come funghi negli ultimi quattro, cinque anni, taccuino alla mano e citrosodina pronta nella borsa; scoprirete che i menù ipertrofici di cui si sono dotati, capaci di soddisfare sulla carta (appunto) qualsiasi esigenza sono tanto ricchi quanto sempre uguali. Le stesse salsine, le stesse patate fritte precotte, le stesse tagliatellone finto caserecce, le stesse buste misto pesce dalle quali attingere per sconcertanti marinare servite a due, tre, quattrocento metri, paelle e zuppe del casale nate umili oggi alla pari con la quaglia in salmì quanto a posizionamento.
Su tutto, il cappello della guerra dei coperti, che vanno a ripianare le spese occorse per mettere in tavola questo ben di dio (2 Euro di coperto coprono appunto i costi di tovagliato, pizza, lavaggio posate; il resto, fa quel che può) oppure sbandierano ai quattro venti la propria assenza, mentre in realtà fanno capolino su tutti quei piccoli ricarichi da 0,50 che trovate qua e là. Per non dire delle liste dei vini, dai prosecchi da 1 Euro a bottiglia dell’aperitivo ai sangiovese da 3 Euro nobilitati fino a 15 una volta finiti in tavola. Le offerte che finiscono con 0,99, gli all you can eat però con bere a parte, gli sconti porta un amico che freghiamo pure lui. Qua e là, piccole retroguardie di ristorazione coraggiosa e propriamente detta cercano sia di mantenere i prezzi lontani dal ridicolo – ovvero, qualcosa che ti faccia dire, letto il conto, che non ti sarebbe convenuto chiamare lo chef direttamente a casa tua; servizio in sala non lezioso ed onesto, quello in grado di dirti che vivaddio il vino è finito prima che tu faccia la scelta e non dopo, di consigliarti sul fatto che non la frittura di pesce ma bensì la cotoletta possono essere buone e gustose oggi in luogo di sciorinarti la carta d’identità e il passaporto di ogni singolo pezzo di carne finito per sbaglio nel bollito.
Che a uno che siede ed è pronto ad inforchettare, anche se dice il contrario, non frega molto del fatto che il pollo sia stato massaggiato e strangolato dolcemente, le uova provengano da galline allevate a terra o sulle terrazze del Pirellone e se il vino che sta facendo finta di sorseggiare (del quale sa a malapena se è etanolo puro o aromatizzato) sia o no biologico o biodinamico, qualunque cosa vogliano dire queste sigle. Difficile trovare questi posti in città, da quando la paura della crisi si è accoppiata con l’idea romantica che dar da mangiare alla gente sia un mestiere romantico, con quella che sia un mestiere facile e con cui sia facile arricchirsi e con quella che sia un mestiere meno faticoso e più intelligente che non montare pezzi di assemblaggio in linea (sì, l’idea della crisi è la Brooke delle idee, si accoppia malamente con qualsiasi altra). Da qualche tempo a questa parte è tutto un fiorire di localini avantgarde in cui un primo di penne al burro te lo fanno digerire 8 Euro e, se con la margarina, siccome è Vegan, gli Euro sono almeno 10, le alette di pollo, più da ingrosso, hanno preso il posto dei carrelli dei bolliti, la cacciagione estemporanea in luglio, complice una distribuzione dall’allevatore all’incauto consumatore, può dare a chi non ne abbia mai fatta l’esperienza la sensazione, raccontata, di un capriolo con polenta come se arrivasse appena scottato dal casino di caccia anziché dal microonde. Si va al ristorante come si va in vasca: ciascuno coi suoi orpelli, pronti per fotografare il piatto prima ancora di vedere cosa c’è dentro, lieti di anticipare il pasto con un paio di bicchieri di quello supposto buono, in modo da anestetizzare il resto dell’esperienza e di poter pure scherzare colla cassiera, pagando con leggerezza da nobili decaduti il prezzo per il sacrificio umano (a se stessi, di se stessi) appena compiuto. Tutto, pur di non doversi mettere a lavorare di strofinaccio, spugna, mestoli tra i fornelli e gli acquai di casa propria; che le nostre case non sono più fatte per accogliere nessuno.
A malapena noi, che ci abitiamo, e poi nemmeno sempre, coi nostri salotti che danno direttamente sulla porta d’ingresso, i vicini con stetoscopio e fucile puntato e le nostre tavernette comprate col sogno di invitare tanti amici, poi più prosaicamente convertite a sale per fare asciugare i panni, guardare i tornei di golf senza rompere i coglioni alla consorte o fare i diorama ferroviari. Perché invitare un amico a prendere un caffè, un bicchiere di vino, due fette di salame, è diventato strano, frettoloso, non si fa; molto meglio delegare a questo compito non luoghi tutti identici a se stessi, vere terre di nessuno in cui fantaccini stanchi di tante battaglie altrui di Master Chef possono ritrovarsi, battere i bicchieri, criticare cibi senza fantasia e poi giocare al gourmet e al censore gastronomico.
Su tutto, la sensazione, sopita a furia di calici basta che siano, che questa situazione, questa offerta di livello da autogrill l’abbiamo creata noi in prima persona, con la nostra domanda ipertrofica, col nostro bisogno di evadere dalle quattro mura domestiche che ormai non sono in grado di soddisfare neppure noi, figuriamoci la vergogna di farle vedere – scusate il disordine, è mentale, dover pulire, rassettare, stendere, sgridare il gatto, sturare il lavello, buttare la spazzatura – a un qualsivoglia ospite, che peraltro vede con identico terrore il dover fare buon viso a cattivo gioco, ma figurati, non c’è problema, basta stare in compagnia. No; meglio il bar al volo per il caffè, il ristopizza anonimo da incontro fugace, e l’imbarazzo è relegato a quei pochi momenti e via. Poco importa che la nostalgia a volte ci porti a sognare quei posticini dove fanno il caffè con la moka, il cuoco si affaccia in sala per vedere le facce di chi mangia, i tortelli un attimo prima di bollire non siano reduci di congelatore e gli spaghetti non siano in porzioni geriatriche. L’importante, prima ancora che vincere, è non partecipare.