Mancano poche ore alle elezioni regionali. Non c’è suspense, l’esito è scontato e finalmente Elly Schlein, dopo avere perso ben 7 sfide regionali su 8 (l’unica vittoria in Sardegna, per poche migliaia di voti e con la candidata presidente grillina), potrà appuntarsi sul petto un’altra medaglia, quella dell’Emilia-Romagna, che comunque il PD vincerebbe anche senza fare campagna elettorale. In Umbria, cioè nelle province di Terni e Perugia, il pronostico è assai più incerto. Dalle nostre parti gli unici interessati alla sfida del 17 e 18 novembre sembrano essere i candidati consiglieri e i loro parenti e amici stretti. In effetti lo saremmo anche noi , la prospettiva di guadagnare, se eletti/e, 10.000 euro lordi al mese più cospicui rimborsi è indubbiamente assai allettante. L’affluenza probabilmente sarà bassa, circostanza che solitamente privilegia la sinistra e i partitini, e l’assenteismo infliggerà un ulteriore vulnus alla democrazia.
Nel PD i bookmakers pronosticano come sicura esclusa dai primi quattro posti, che danno diritto all’agognato seggio in via Aldo Moro a Bologna, l’assessora rubierese Laura Arduini. L’altro piazzamento da evitare, il quinto, potrebbe essere un affare tra la cattolica Anna Fornili, area Delrio/Castagnetti, figlia dell’ex sindaco dell’allora Margherita (il petalo sinistro della defunta Dc) di Casina, Carlo Fornili e Federico Amico, il prediletto di Elly Schlein. Chi prenderà più voti, e il favorito è Alessio Mammi, farà l’assessore in Regione. Nelle altre liste di centrosinistra, tornano alla carica, dopo essere stati “trombati” alle recenti amministrative, Claudio Guidetti, con poche chances di essere eletto, tra i cosiddetti Riformisti, e, con qualche possibilità in più, in Sinistra e Verdi, uno tra Paolo Burani e un giovane vecchio idolo di 7×24, Cosimo Pederzoli. Quest’ultimo è un autentico talento, un funambolo della sinistra radicale, da un pò di tempo collabora con la encomiabile Cooperativa l’Ovile cara a Mimmo Spadoni e Daniele Marchi, ma probabilmente meriterebbe palcoscenici più prestigiosi e meglio remunerati.
Sulla giunta reggiana di Marco&Marco, cioè il sindaco formalmente eletto Marco Massari e quello forse neanche tanto occulto, il suo capo di Gabinetto Marco Pedroni, ex consigliere comunale PDS-DS ed ex presidente di Coop Nordest, non ci dilunghiamo oltre. I loro elettori potrebbero a buon diritto pretendere che i due facessero finalmente qualcosa di sinistra, a noi invece basterebbe che la giunta di Marco&Marco, dopo 5 mesi di quasi assoluto immobilismo, facesse semplicemente qualcosa.
Praticamente nessuno dei candidati del centro-sinistra, che pure ci bombardano quotidianamente di spot sui social, manifesti nelle strade, interviste TV e comunicati stampa, ha speso una parola sull’evento che nei giorni scorsi ha segnato la politica internazionale ed è destinato senza dubbio a dare al nostro malandato pianeta un ulteriore, forte scossone, l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump. Hanno invece esultato, come quando allo stadio segna la squadra del cuore, gli esponenti del centro-destra. Ora, passi per il consigliere comunale Alessandro Rinaldi: militando nel partito di Matteo Salvini, uno che se ne andava a zonzo sulla Piazza Rossa indossando una maglietta col faccione di Putin, ci sta che gioisca per la vittoria di Trump, che di Putin è notoriamente un grande ammiratore. Ma Alessandro Aragona? Evidentemente nessuno gli ha spiegato che, se Trump mantiene la promessa elettorale di imporre dazi fino al 60% sulle merci importate in America, in Emilia ci aspetta un’ondata di licenziamenti e di cassa integrazione, per altro già in atto per la crisi dell’automotive. E se le basi militari USA schiodano le tende dall’Italia, chi ci manda Aragona a proteggere la Sicilia dai jihadisti libici e dalle navi da guerra russe che gironzolano per il Mediterraneo? Ci va lui con i colleghi dell’ordine degli avvocati dopo l’aperitivo in piazza Fontanesi? Curiosi questi candidati di Fratelli d’Italia paladini della tradizione e dei valori familiari.
Il loro numero tutelare ora è Elon Musk, il miliardario sudafricano che, non avendo potuto chiamare il suo ultimo figlio “X Aɛ A12” perché la legge della California proibisce di dare ai neonati nomi composti da lettere che non appartengano all’alfabeto inglese, lo ha chiamato “X AE A-XII”. Recentemente Musk si è trasferito in Texas, dove ha acquistato tre villoni a poca distanza l’uno dall’altro, nei quali ha messo a vivere le sue tre mogli e gli undici figli che gli hanno dato, inclusi quelli generati in vitro o con maternità surrogata. La dodicesima, Vivian, è stata ripudiata dal padre perché ha cambiato sesso, ed è pure comunista. Musk è il padrone di X, l’ex Twitter, e usa massicciamente i social per profilare le persone, cioè tutti noi, come per altro fanno anche i mogul delle altre piattaforme. Ma lui lo fa per manipolarci politicamente, inondandoci di messaggi mirati e fake news per orientare il nostro voto. Insomma, George Orwell a Elon Musk gli fa una pippa.
Ma ben più scioccante dell’esito delle elezioni americane (“no, il dibattito no!”, gridava il protagonista di un famoso film di Nanni Moretti) è stato l’effluvio di commenti che hanno invaso i social dopo il 6 novembre. Nella marea di minchiate che ci siamo dovuti sorbire, una ha oltrepassato ogni soglia del ridicolo. Ci riferiamo alla leggenda, messa in giro dalla propaganda trumpiana, secondo la quale “il popolo era con Trump e lo star system stava con i Democratici”, e che “le stelle dello spettacolo che hanno sostenuto la campagna di Kamala Harris non sono servite a nulla”. Falsa e grossolana, perché comunque i giovani e i neri hanno votato in prevalenza per la Harris. Che a questa manipolazione abbocchino gli M5S, che negli ultimi 15 anni hanno vissuto nel culto di un comico in disarmo, scambiandolo per il Messia, e nominando portavoce dell’allora Presidente del Consiglio, l’avvocato del pueblo Giuseppe Conte, un ex concorrente del Grande Fratello, Rocco Casalino in persona, non sorprende. E non stupisce che anche la seconda carica dello Stato, il Presidente del Senato Ignazio la Russa, notoriamente incapace di frenare la sua incontinenza verbale, partecipi al cecchinaggio contro le stelle della musica pop pro Kamala Harris.
Ma che lo faccia anche un politologo solitamente prudente e misurato come Massimiliano Panarari, forse perché convinto che un pizzico di grillismo possa giovare al suo curriculum di intransigente liberal-democratico senza se e senza ma, lascia basiti. Anche perché il primo ad avere fatto abbondante uso di star dello spettacolo è stato proprio Trump, che ha fatto concludere il suo comizio al Madison Square dal campione di wrestling Hulk Hoogan e ha iniziato tutte le sue manifestazioni elettorali facendosi introdurre dalla colonna sonora, una marcia funebre, con la quale un altro celebre wrestler, the Undertaker, per anni è salito sul palco prima di fingere di prendersi a botte con altri energumeni. Da tutti questi segni concomitanti di grave e inarrestabile degrado, duemilacinquecento anni fa pizie, sacerdoti e aruspici vari avrebbero inequivocabilmente vaticinato che la fine del mondo è vicina.