Mafia e capolarato, Nicolosi (capo procura di Prato): “Azione più efficace”

Prato – “A Prato ho iniziato la mia carriera molti anni fa e precisamente nel 1981, quando avevo appena 26 anni, oggi ne ho qualcuno in più”: inizia così il colloquio con il Procuratore Capo di Prato, Giuseppe Nicolosi, che ha raccontato a Stamp le fasi più importanti della sua carriera professionale.

A Prato Nicolosi rimase fino al 1988 quando ottenne il trasferimento alla Procura di Firenze. Lì, da pubblico ministero fu chiamato alla Direzione distrettuale antimafia, all’interno della Procura di Firenze, da Pierluigi Vigna che all’epoca era il procuratore nazionale. Intanto nel febbraio del ’91 Giovanni Falcone fu chiamato a Roma dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli a dirigere l’Ufficio Affari Penali.

Di cosa si occupava il pool antimafia fiorentino?

A seguito dell’istituzione delle Direzioni distrettuali antimafia Pierluigi Vigna mi chiamò a comporre l’ufficio antimafia fiorentino, insieme alle colleghe Silvia Della Monica e Margherita Cassano. Il pool antimafia si occupava dei fatti di criminalità organizzata e nello specifico di droga perché essa era la tela su cui insistevano le organizzazioni criminali anche di tipo mafioso. Cominciarono così dal 1991 le mie inchieste sul grande traffico di stupefacenti che consentivano di guardare anche a fronti criminali diversi. Nell’ambito di una di queste indagini collegata ad una di Palermo seguita dal giudice Falcone, avvenne poi anche l’incontro che io ebbi con lui a Firenze.»

Cosa ricorda di quegli anni?

«Fu quello un periodo di grande fervore anche perché portammo avanti numerose inchieste di mafia. La situazione all’epoca era molto diversa rispetto a quella di oggi perché era in atto un tentativo di controllo del territorio toscano da parte di Cosa Nostra ed io mi occupai di diverse inchieste. Diressi allora grossi processi che riguardavano anche un abbozzo di insediamenti criminali e mafiosi su Prato, Firenze e Montecatini attraverso la famiglia capeggiata da Giuseppe Madonia di Gela. Ma riuscimmo a scardinare la struttura criminale abbastanza efficacemente».

Ne ricorda qualcun’altra significativa?

«Come  spesso accade, da alcune inchieste ne scaturiscono altre ad esempio quella del 1992- 93 dell’Auto Parco di Milano. Tutto partì da una serie di indagini a Prato che ci portarono prima ad indagare su Firenze e poi a Milano. In breve scoprimmo  un vero e proprio consorzio criminale di smistamento di stupefacenti ed armi che aveva il suo fulcro in un Auto Parco in via Salomone. Qui transitavano  personaggi della criminalità mafiosa catanese,di Cosa Nostra e personaggi dell’Ndrangheta. Un’indagine che sollevò non poche polemiche perché avevamo sconfinato sul territorio milanese che a quel tempo era già alle prese con Tangentopoli».

Poi tutto cambia con l’attentato in via dei Georgofili a Firenze…

«In un certo senso sì. Gli  attentati a Falcone,Borsellino erano di chiara matrice mafiosa ma quando emerse che anche  le stragi di via dei Georgofili, di Roma e Milano, erano innanzitutto collegate e riconducibili a Cosa Nostra, affiancai il collega Gabriele Chelazzi. Ricordo che completai le mie inchieste e mi dedicai completamente e a tempo pieno questi fatti criminosi.»

Come riusciste a trovare i colpevoli e soprattutto a capire i collegamenti fra i vari fatti? 

«Consapevoli della difficoltà non ci risparmiavamo: Chelazzi ed io riuscimmo ad imboccare quella che poi si rivelò la pista giusta. Fu grazie ad un accurato studio dei tabulati telefonici che arrivammo a Pietro Carra e da lui a Scarano e Romano, bassi profili malavitosi che furono gli esecutori materiali  delle stragi. Dopo le morti di Falcone e Borsellino i primi  pentiti di alto livello riferirono ai magistrati  di una nuova strategia stragista di Riina e del gruppo dirigente di Cosa nostra ma sui fatti e su chi aveva messo in pratica gli attentati non ne sapevano nulla. Cioè riguardo la fase esecutiva il buio assoluto. Fummo noi che che scoprimmo  dai tabulati telefonici che un certo Pietro Carra, autotrasportatore il giorno prima dell’attentato a Firenze,era stato a Prato grazie ad una chiamata a Messana che rimandava al capo mafia di Alcamo, Ferro. Mentre Scarano fu arrestato a Roma per una denuncia di un signore che dovendo scontare 25 anni di galera si presentò spontaneamente ai carabinieri affermando che un certo Saddam,( il soprannome con cui era conosciuto Scarano per la sua somiglianza con Saddam Hussein), gli aveva portato in casa dell’esplosivo.»

La nuova strategia mafiosa? 

«Sí, perché l’attentato di via de Georgofili era scaturito dalla strategia di Cosa Nostra o meglio la mente criminale di Riina aveva partorito in quegli anni un nuovo metodo criminoso di tipo terroristico per indurre lo Stato a scendere a patti. E da lì che è scaturito il processo trattativa. Dal 1994 fino al 2001 fui totalmente assorbito da queste indagini e il processo di primo grado si è concluse con la condanna all’ergastolo di Riina, Provenzano, Matteo Messina Denaro,i fratelli Graviano. Ma Denaro è ancor’oggi latitante».

Su questi attentati sui quali lei allora indagò, la procura  toscana ha ottenuto dal Gip la riapertura del fascicolo per una nuova intercettazione telefonica che coinvolgerebbe Berlusconi  e l’ex senatore dell’Utri…

«Abbiamo fatto due inchieste bis fino a che io ero alla procura di Firenze, e per ben due volte abbiamo archiviato; oggi c’è un nuovo input che è dato da una intercettazione ambientale. Vedremo.»

Veniamo alle sue recenti indagini ad esempio quella sul capolarato.

«Era il 2016 e scoprimmo a seguito di alcune denunce che importanti imprenditori agricoli toscani della zona del Chianti sfruttavano consapevolmente immigrati clandestini,richiedenti asilo, e che li mandavano a lavorare nei campi pagandoli  4 o 5 euro l’ora. Inoltre con la nuova legge che ha riformato l’articolo 603-bis del Codice penale allargando l’ambito applicativo è stata resa più efficace l’azione giudiziaria in fatto di sfruttamento e intermediazione illecita del lavoro, ovvero il cosiddetto caporalato.»

Riguardo invece l’illegalità cinese a Prato? 

«È un discorso lungo e che parte da lontano: i cinesi arrivano a Prato con il visto turistico e già sanno dove andare e cosa fare qui in città. Esiste un’illegalità  diffusa, che si accompagna ad una serie di violazioni delle normative in materia di sicurezza sul lavoro,fedeltà fiscale e contributiva. Ma c’è anche la criminalità organizzata.»

Come è cambiata la mafia oggi? 

«La mafia come le ho ora raccontato non c’è più , perché essa non ha bisogno di sparare; c’è una riconversione dell’ala militare ovvero di quella  gente che reclutata, stava sul territorio e all’occorrenza  ammazzava affermando così la sua supremazia.  Allora non si ricorreva solo alla violenza fisica ma purtroppo anche all’uso sistematico della minaccia.»

In foto il Procuratore Capo di Prato Giuseppe Nicolosi 

 

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