Lunga vita, triste Signora degli Indignados

Excursus-omaggio della nostra redazione nella poesia italiana per riflettere sul senso della morte, cioè della vita nelle notti tra Halloween e il giorno dei defunti

C’è una costante nella storia del pensiero: la riflessione sulla morte. Che è, si badi bene, non tanto o non solo la paura di un oltre che non si conosce. Ma la domanda ultima sul destino dell’uomo. Vi è infatti, in quella infinita e affascinante meditazione sepolcrale, che lega le culture del globo e  le religioni della storia, la più profonda connotazione di umanità che si possa esprimere. Ancor prima delle domande su Dio, l’essere intelligente si è posto (come testimoniano le più antiche forme d’arte espressiva rupestre) la domanda sulla fine della vita biologica e sensoriale. Dandosi filosoficamente le risposte più svariate, dalla cupio dissolvi – rinascita in energia universale d’origine orientale alla presenza dell’anima immortale di derivazione greco-cristiana fino alle più diverse forme di panteismo e animismo che sottendono comunque l’adorazione delle manifestazioni degli elementi di natura, antropomorfizzati o meno a seconda delle ere. In questi giorni dedicati ai defunti, secondo la consueta cristianizzazione del calendario di antichissime tradizione pagane (in questo caso il capodanno celtico Samhain che celebrava il culto dei morti), la redazione ha pensato di omaggiare i sempre più numerosi utenti-lettori del presente magazine andando a ripescare, senza alcuna velleità enciclopedica ma col semplice ritmo del gusto personale, le rime che grandi poeti italiani e non hanno dedicato alla Morte; pensando di fare cosa gradita, ecco il nostro più che casuale excursus per sollecitare uno spunto, magari da più d’un’angolazione:

“…a mezzo dell’erta a sinistra/v’è un grande cancello che chiude un giardino./Là dentro passeggiano al sole/le fanciulle bianche./Passeggiano lente pel grande giardino./Non ànno un sorriso./La gente passando si ferma a guardare”

(da Le fanciulle bianche di Aldo Palazzeschi)

la morte che coglie indistintamente e l’eterno domandare dell’uomo, senza risposta

“Annie dorme: un chiaror discreto/avvolge come in un segreto/la bruna testa, china giù/sullo scrittoio d’acajù./…Annie, per quale lontananza/la dolce anima tua s’avanza,/mentre riposi, china giù/sullo scrittoio d’acajù?”

(da Le piccole morte di Fausto Maria Martini)

la morte bianca, dei piccoli, mistero dei misteri, dolore dei dolori

“…Ma afferra la donna/una notte, dopo un gorgo di baci,/ se tornare potrai;/ sòffiale che nulla del mondo/redimerà ciò ch’è perso/di noi, i putrefatti di qui;/stringile il cuore a strozzarla:/e se t’ama, lo capirai nella vita/più tardi o giammai”

(da Voce di vedetta morta di Clemente Rebora)

la morte in guerra, mentre una donna, un amore t’aspetta

“…Morte, non mi ghermire,/ma da lontano annunciati/e da amica mi prendi/come l’estrema delle mie abitudini”

(da Alla morte di Vincenzo Cardarelli)

la morte come evento naturale che riguarda ogni uomo, così vicina ma tenuta-temuta così lontana dal bombardamento mediatico spersonalizzante

“…azzurri carri di neve/salivano ai monti pallidi/

e la notte era un vano chiamare/nell’eco perduta dei morti”

(da Plenilunio di Alfonso Gatto)

la morte come fine ultima e disfacimento anche della memoria

“Sul chiuso quaderno/di vati famosi,/dal musco materno/lontana riposi/riposi marmorea,/dell’onde già figlia/ritorta conchiglia”

(Sopra una conchiglia fossile di Giacoma Zanella)

la morte, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma

“…Ora che più forte sento/stridere il freno, vi lascio/davvero, amici. Addio./Di questo, son certo: io/son giunto alla disperazione/calma, senza sgomento./Scendo. Buon proseguimento”

(da Congedo del viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni)

la morte che non fa più paura e che dà luogo ad una mancanza di speranza, la più alta tra le libertà

“Starà la tua anima solitaria/fra i bui pensieri della grigia lapide/non uno in cotanta folla, verrà a spiarti/in quella tua segreta ora…”

(da Spiriti dei morti di Edgar Allan Poe)

la morte come evento personale e solitario, da “vivere” con dignità, lontano dall’orante caciara del 2 novembre

“Viatorm quod es, ego fui. Sed quod sum et tu eris”

“tu che passi ricorda: ciò che sei, anch’io son stato. Ciò che ora sono, sarai anche tu”

(ammonimento al viaggiator che passa sulla lapide di un pellegrino defunto).

Per dire in ultima analisi che nulla ci rende più simili del trapasso, paradossalmente molto più della nascita. Nelle Totentanz, le danze macabre affrescate nel Medioevo a rimarcare il livellamento di classi e portafogli sotto la falce della Triste mietitora, c’è, in quel macabro girotondo, un accento consolatorio. Che nessuno sfugge all’abbraccio fatale: né ricco, né povero, né chierico, né lavoratore, né soldato. Allora pensiamo in questi giorni a chi, caro, ci ha preceduto nel varcare la soglia suprema e diciamo con S.Francesco: “Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale dalla quale nullu homo vivente po’ skappare…” (il resto della Laude è materia eventuale di fede). Oppure sfoghiamo il nostro sdegno col crescente popolo degli indignados, si creda o meno ad un premio o ad un castigo ultraterreno, con la certezza che le fosse ridondano di persone insostituibili. Memento mori

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