Firenze – Impegnati a combattere il virus in una seconda ondata di epidemia di cui ancora non possiamo prevedere durata e conseguenze, è anche tempo di attrezzarsi per future sciagure sanitarie, cosa che in tutta Europa non era stato fatto prima del grande contagio e neppure efficacemente nella tregua estiva.
Ci prova Marco Geddes da Filicaia, medico epidemiologo uno dei massimi esperti di sanità pubblica sia da scienziato sia anche sul campo da amministratore (è stato assessore alla sanità e alle politiche sociali del Comune di Firenze).
Pubblicista e attento studioso delle politiche sanitarie in Italia, Geddes ha scritto un libro “La sanità ai tempi del coronavirus”, uscito nel settembre scorso per i tipi de Il pensiero Scientifico Editore, che ha il vantaggio di fare il punto della situazione, di chiarire tanti interrogativi sorti nei mesi del confinamento (o lockdown, l’espressione inglese che si è imposta nella comunicazione) e, soprattutto, di trarre le prime lezioni da quanto è accaduto e sta di nuovo accadendo.
Ne risulta un piacevole e utile “instant book” scritto da uno specialista dalla scrittura semplice e diretta e, nello stesso tempo, un manuale puntuale che prende atto degli errori, dei ritardi e delle politiche sbagliate per ragionare sulle cose da fare per evitare di trovarsi di nuovo impreparati di fronte all’evento di una nuova pestilenza.
Intanto, premette, è inutile chiedere certezze agli scienziati, come hanno fatto tanti politici, perché in questa situazione e con questo livello di conoscenze sul virus e la malattia che provoca “si naviga in acque sconosciute”. Tanto più che l’incertezza è inerente alla assistenza sanitaria e dunque “gli scienziati non condividono le certezze, ma i metodi per realizzare ricerche e validarne o confutarne i risultati”.
E anche per dare buoni consigli sugli interventi strutturali necessari. Quelli di Geddes partono da una strategia globale a cominciare dal rafforzamento dell’Organizzazione mondiale della sanità, dando alla agenzia anche “capacità di indagini autonome all’interno dei singoli paesi”. Poi sostiene la necessità di riorganizzare la filiera produttiva al livello sovranazionale nei settori strategici della salute, che dovrebbe comprendere la produzione e il controllo statale (dalla mascherina ai vaccini): “Questa esperienza pandemica ci dovrebbe suggerire la realizzazione di un’infrastruttura pubblica analoga al Cern di Ginevra per farmaci e vaccini con il compito di ricerca, sviluppo, produzione e distribuzione”.
L’intervento e il controllo dello stato che non lascia solo al mercato il compito di produrre cosa, dove e quando, senza alcuna capacità di guida e programmazione, è un punto centrale del lavoro dell’autore, che lamenta che neppure con questa esperienza si percepisce l’avvio di una riflessione in funzione di nuove ipotesi di sviluppo.
Per questo le sezioni più importanti del libro, al di là di altre interessanti e ricche di informazioni ben sistemate e contestualizzate della fase immediatamente precedente alla pandemia e dei 100 giorni di confinamento, riguardano il Sistema Sanitario Nazionale prima e dopo l’impatto drammatico dell’epidemia.
Fortemente indebolito dai tagli indiscriminati e dalla riduzione dei finanziamenti, l’Ssn ha mostrato carenze come la mancanza di letti e attrezzature di riserva e di personale (dal 2009 al 2017 persi 46mila addetti) per affrontare l’emergenza. Più grave ancora il fatto che, mentre si razionalizzavano e si accorpavano le strutture ospedaliere con un approccio quasi esclusivamente economicistico, non si sono potenziate “le strutture intermedie post degenza e, in particolare, della medicina di comunità”. Vale a dire ciò che rende efficace la sanità territoriale.
Da un certo punto di vista anche il rapporto fra privato e pubblico, lasciato per lo più alle regole del mercato, ha contribuito ad aggravare i problemi, soprattutto in alcune regioni. Così, nonostante ostacoli e difficoltà, nella “maratona” di 40 anni di sviluppo del Sistema nazionale, siamo arrivati fra i primi, ma a quel punto “abbiamo appreso che oltre al traguardo, a cui siamo giunti esausti, ci attendeva l’ultimo miglio, tutto in salita”: la collina del coronavirus.
Cosa fare per non ricadere nella stessa situazione? L’autore invita ad apprendere dall’esperienza ponendosi nella prospettiva della sanità dopo il 2020. Con in testa il vecchio ma sempre valido principio che prevenire è sempre meglio che curare.
Sul piano metodologico lamenta il fatto che non sono ancora a disposizione i dati dell’indagine epidemiologica predisposta da Istat e Istituto superiore di sanità, che sui dati “si proceda in ordine sparso” e che le procedure di assunzione sono ancora troppo lente.
La prima cosa da fare è “costituire un sistema nazionale di epidemiologia e sanità pubblica, articolato a livello regionale, mettendo in rete le competenze e le risorse adeguatamente potenziate”. Per esempio riattribuendo al Servizio sanitario le competenze sull’ambiente.
Fondamentale poi è la riorganizzazione del sistema di cure primarie con strutture unitarie di attività sanitaria e sociale, che comporta una visione diversa fondata sulla sanità territoriale. In tali strutture dovrebbe essere immesso personale infermieristico che affianchi il medico di base, perché ne potenzi l’incardinamento nel sistema sanitario nazionale e il collegamento con gli altri livelli assistenziali.
“Quella del coronavirus – scrive Geddes – è un’occasione da non perdere per mettere mano a un ridisegno complessivo al ’ventre molle’ della nostra sanità. Sono disponibili finanziamenti per investimenti per l’assunzione di nuovo personale e tali risorse vanno utilizzate nell’ambito di un disegno organico che ancora non si intravede”.
E’ necessario rimodulare e ridisegnare gli ospedali, riducendo i flussi, trasformando il Pronto soccorso da strutture provvisorie emergenziali a definitive, realizzando “un’area adeguata di pre-triage da cui si dipartano percorsi potenzialmente diversificati: uno in uso abitualmente e un secondo da attivare in situazioni di epidemia”.
Infine, per quanto riguarda le residenze sanitarie assistite così duramente colpite dal Covid-19, “dobbiamo ripensare una politica urbanistica e abitativa per gli anziani”, con lo stesso spirito della lunga battaglia culturale e politica avviata da Franco Basaglia per gli ospedali psichiatrici.
Foto: Marco Geddes da Filicaia