L’Onu al bivio, Israele e il diritto internazionale da ritrovare

Se le Nazioni Unite non funzionano, la colpa è degli Stati nazionali
US Army (USA) M1A1 Abrams MBT (Main Battle Tank), and personnel from A Company (CO), Task Force 1st Battalion, 35th Armor Regiment (1-35 Armor), 2nd Brigade Combat Team (BCT), 1st Armored Division (AD), pose for a photo under the “Hands of Victory” in Ceremony Square, Baghdad, Iraq during Operation IRAQI FREEDOM. The Hands of Victory monument built at the end of the Iran-Iraq war marks the entrance to a large parade ground in central Baghdad. The hand and arm are modeled after former dictator Saddam HusseinÕs own and surrounded with thousands of Iranian helmets taken from the battlefield. The swords made for the guns of dead Iraqi soldiers, melted and recast into the 24-ton blades.

Un gioco politico alla moda è quello che parte dalla critica delle Nazioni Unite, per l’incapacità di risolvere le situazioni di crisi internazionale, e si conclude con la constatazione di inutilità o, peggio ancora, di sottomissione dell’ONU alla volontà di una parte in campo, meglio se democrazia illiberale.

Un giochino davvero pericoloso. Il cammino della comunità internazionale, dalla Pace di Westfalia (1648) alla nascita delle Nazioni Unite (1945) passando dal Concerto d’Europa (1815) e dalla Società delle Nazioni (1919), è particolare e corre in parallelo alla definizione di un nuovo “codice” di diritto internazionale generale. Senza quest’ultimo, anche l’ONU, infatti, serve a ben poco. 

Le Nazioni Unite sono allora davvero inutili? No, per niente. Caso mai inutili siamo proprio noi, i cittadini appartenenti a una comunità nazionale. È rassicurante, infatti, andare in brodo di giuggiole nell’ascoltare slogan antistorici come “Difendere i confini nazionali” et similia. Un’espressione comprensibile forse nella sciovinista Francia, o nel caso del crimine di aggressione internazionale, ma non in Italia dove, per storia e geografia, l’unico sentimento nazionalista accettabile è quello sportivo.

Se l’ONU non funziona, la colpa è degli Stati nazionali, cioè sempre noi. Siamo stati abituati a interpretare il ruolo dell’ONU astrattamente, come se l’organizzazione esistesse indipendentemente dalla sintesi di diverse e contrapposte volontà nazionali. Ed è altrettanto vero che di difetti ce ne sono a bizzeffe, a partire dal “direttorio” del Consiglio di Sicurezza e del veto dei Cinque Grandi, le Superpotenze. Tutto vero, e allora? Si butta via il bambino con l’acqua sporca? Oppure si passa il tempo a cavillare sulla natura universale dei diritti umani, argomento questo non “onusiano” ma intensamente nazionale? 

Le Nazioni Unite affrontano quotidianamente le crisi fisiologiche e globali della comunità internazionale: carestie e deficit alimentare di intere regioni e popolazioni (PAM), rifugiati (UNHCR), pandemie (OMS), assistenza all’infanzia e ai livelli vulnerabili (UNICEF), e via dicendo. E alle Nazioni Unite, tramite il meccanismo pur involuto dei COP, è affidata la risposta alla sfida principale che l’umanità sta affrontando oggi: i cambiamenti climatici e la nascita del diritto climatico. 

Il problema principale, come ho scritto, è accompagnare il percorso ONU con un adeguato sviluppo delle varie branche del diritto internazionale, partendo dai contenuti della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969), al cui interno è scritto il principio di ius cogens, il diritto costituzionale internazionale. 

Prendiamo a esempio la guerra in Medioriente, e spingiamo il nostro sguardo sulla situazione carceraria in Israele. Nelle ultime settimane, mi è capitato di intercettare almeno una ventina di volte la citazione svalvolata attribuita a Voltaire sulle carceri specchio del grado di civiltà di un Paese. Tradotta nella realtà significa che un Paese veramente civile sul pianeta Terra non c’è. Si potrebbe fare una classifica graduale, questo sì, ma è impossibile trovare in giro per il mondo una galera civile. Morale: quando si critica l’altrui inciviltà carceraria è sempre bene prima guardare quella di casa propria. Non si sa mai. 

Detto ciò, la ong israeliana B’Tselem, l’ONU, Save the Children, Amnesty International, e numerose altre organizzazioni hanno denunciato le gravi condizioni di detenzione dei detenuti palestinesi. Feriti, nudi, bendati e legati alle brandine, molti testimoni raccontano le torture e le violenze nelle basi militari israeliane trasformate in prigioni per chi è arrestato a Gaza e non ha più diritti, neanche quelli dei prigionieri di guerra. La Cnn ha mandato qualche servizio in onda e il governo di Israele ha dovuto ammettere di aver parzialmente trasformato tre strutture militari in campi di detenzione per i detenuti palestinesi di Gaza, catturati dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre. 

Sde Teiman, Anatot e Ofer sono le tre carceri speciali situate in Cisgiordania. Si tratta di tre legal black hole, sull’esempio della base militare Usa di Guantanamo, dove i detenuti sono trattati in condizioni inaccettabili. Le politiche penitenziarie sono la pietra angolare dell’ordinamento giuridico di un Paese e la salute democratica di un sistema di giustizia fondato sulle garanzie individuali si osserva anzitutto attraverso le lenti dell’esecuzione penale in carcere.

Ecco – qualcuno dirà – il solito commento in odore di “antisemitismo”. Chi si azzarda a criticare Israele in questa particolare fase storica, è accusato automaticamente di essere “antisemita”. Mi sarei anche stufato di queste fandonie. Io, per chiarire, non critico Israele ma il suo governo, e criticandolo cerco di difendermi dalla mia stessa indignazione, che è la stessa che provo per altre situazioni carcerarie. Non sto dalla parte di Hamas, ci mancherebbe, che tiene i suoi detenuti in condizioni anche peggiori. E non mi si venga a contestare la favoletta della “reazione” giustificata del governo di Israele. Non la accetto. La responsabilità penale è personale e individuale, e si ha sempre la possibilità di scegliere come reagire “proporzionalmente”. Se si deve o si vuole reagire con le armi è, infine, un’altra questione anch’essa particolarmente interessante. Il governo di Israele ha fatto la sua scelta: distruttiva e autodistruttiva allo stesso tempo. 

Sto dalla parte del diritto, che il governo di Israele continua a infrangere in nome della sua auto-conservazione e della legittima sopravvivenza. In nome cioè di una reazione politica. Hamas è riuscita a far passare in secondo piano perfino le nefandezze del suo attacco terroristico. Le violazioni delle norme internazionali di ius cogens del c.d. ius in bello (il diritto dei conflitti bellici) sono ormai così evidenti che non è necessario neanche elencarle. Qualsiasi norma di diritto umanitario (parte dello ius in bello) è stata frantumata a Gaza. E dei suoi atti “questo” governo di Israele prima o poi dovrà rispondere. Come dovrà rispondere Hamas di altre e diverse violazioni del diritto internazionale penale. Non lo dico certo io, ma due corti di giustizia internazionale: la Corte Penale Internazionale e la Corte internazionale di Giustizia. Non metto sullo stesso piano il governo di Israele e Hamas, ci mancherebbe. Non mi piacerebbe, però, che la politica del diritto prodotta dal sionismo fondamentalista si trasformasse, per dirla con Gobetti, in una sorta di autobiografia della nazione. Il rischio, tuttavia, è molto alto. 

Già, il diritto. In Israele confluiscono fonti giuridiche ottomane, anglosassoni, romano-germaniche e del diritto ebraico in virtù del singolare compromesso fra il corpus giuridico vigente in Palestina, l’ascendente culturale di netta impronta occidentale e la matrice religiosa basata su un diritto particolarmente evoluto. Gli esperti di diritto costituzionale comparato hanno etichettato questo Paese in vario modo, come un “regime multiconfessionale differenziato», un “ordinamento laico a base formalmente pluriconfessionale equiordinata”, un “modello di secolarizzazione incompiuta”. Israele è dunque un ordinamento misto, in cui è difficile comprendere la tenuta formale dello stato di diritto, non facendo parte né della famiglia di Common law, né di quella di Civil law. Israele, d’altronde, non ha una costituzione scritta ma solo alcune Basic Laws quasi-costituzionali, da cui è impossibile valutare la sincerità dei valori costitutivi di una democrazia di natura a-confessionale o laica, per capirsi meglio. Non si deve dimenticare, infatti, che è il diritto ebraico, la Halachà, a fare, come si dice, il brutto e il cattivo tempo. E il punto problematico è proprio questo, la Halachà

Questa annotazione in stile Bignami serve, però, a concludere il ragionamento. Israele ha tutte le risorse per uscire dal guado in cui si è cacciata. A disposizione ha strumenti giuridici, personale politico, secolare storia, e una straordinaria cultura, ma deve avere anche il coraggio di ritrovare lo spirito d’un tempo senza il quale la vocazione all’autodistruzione pare essere diventata la sacra forza vitale di una nazione che distrugge il nemico, e il popolo di cui quel nemico è parte, per distruggere sé stessa. E dovrebbe cominciare proprio dai suoi istituti di pena, dalle condizioni di detenzione dei prigionieri palestinesi, e dalla resistenza giuridica alle insistenze reazionarie della Halachà. Allo stesso tempo, il Governo israeliano dovrebbe rispettare i principi del diritto internazionale pubblico e le norme di ius cogens in esso contenute. Il problema di una comunità internazionale è in questa divaricazione, tra il principio di autolegittimazione che nasce dal diritto nazionale e l’assenza di un diritto internazionale dotato di effettività. La base di una crescita della Comunità internazionale si trova nascosta in questa dimensione, che per ora è di natura volontaristica, ma un giorno potrebbe diventare qualcosa di diverso, come in tanti auspicano. 

L’ONU è ha un bivio, crescere o scomparire. Un evidente enigma sancito anche dalla conclusione dei lavori dell’Assemblea Generale, cui solo gli Stati nazionali potrebbero dare una risposta. Quale? 

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