Liberiamoci pure da ogni dubbio: il pugilato è uno sport. Certo potrebbe esserlo anche percuotersi con un elenco telefonico, ma la boxe è probabilmente l’attività diportiva più antica del mondo (e quella che ha avuto diramazioni più articolate) e c’è chi sostiene anche che le guerre avvengono per un’endemica carenza di scazzottate.
Quello che posso dire è che ciò che rende uno sport un’arte sono i suoi protagonisti. E se l’arte di boxare è definita nobile è grazie soprattutto a gente come Teofilo Stevenson. Il pugile cubano, scomparso l’11 giugno di quest’anno, ha rappresentato per anni un senso puro e pulito di sport, di dedizione e di lealtà. Rifiutò sempre il professionismo e milioni di dollari, preferendogli “l’amore di otto milioni di cubani”. E se fate un giro per le spiagge caraibiche, potrete anche avere un vago senso di condivisione.
Tristezza. Per la sua morte sì, ma soprattutto per quello che lo sport è diventato. Ripenso agli atleti italiani arruolati nelle varie forze armate (cioè pagati da noi per fare il loro sport), che chiesero la detassazione dei premi olimpici (i più alti del mondo), perché in fondo il Paese doveva loro riconoscenza per ciò che facevano. Stevenson diceva “non parlate di me, è della mia gente che si deve parlare. Devo tutto al mio popolo”. Ora non dico che i nostri atleti mi debbano qualcosa, ma sinceramente io mi sento molto più riconoscente verso l’omino che mi porta via la spazzatura dalla strada o verso quella donna che mi ha detto le più belle parole che si possano sentire: “E’ benigno”. Con tutto il rispetto per spadaccini e scopettatori di curling.
Tristezza. Scusate, ma grandina, governo tecnico e io vivo in una tenda. Deficito di allegria. La tristezza mi viene a vedere il signor Napolitano, che ha tardato appena diciotto giorni a farsi vedere a una certa distanza dai terremotati emiliani, mentre è stato puntualissimo in tribuna autorità di un polacco stadio, per assistere alla massima espressione di uno sport che da anni vive di scandali, corruzione, criminalità, manco fosse un governo.
E la tristezza non passa nel vedere il presidente di un paese in ginocchio, abbracciare l’indignato Buffon. Indignato perché se vuole spendere quattromilacentonove euro al giorno dal tabaccaio sotto casa, sono affari suoi. Chi non ha bisogno di un po’ di accendini, cicles, francobolli e portachiavi della mercedes? E poi se vuole scommettere sul calcio scommette quanto gli pare. Che in borsa si chiama insider trading e a briscola è come infilarsi il mignolo nell’orecchio per dire al tuo compagno che hai il fante di bastoni.
Del resto il nostro presidente si trova bene in questi ambienti. Banchieri, portieri. C’è gente qui che avrebbe proprio bisogno di un portiere. Di condominio. Avrebbe bisogno anche di condominio.
Napolitano è sempre stato un uomo che a sinistra risultava un po’ mancino. Migliorista, lo chiamavano. Lui non voleva combattere il sistema. Voleva abbattere la povertà, non i ricchi. All’epoca, quando la sinistra non era solo un suggerimento del navigatore satellitare, Napolitano voleva rendere umano il capitalismo. Non fece i conti con un problema più grosso: rendere umani gli umani.
E allora per scuotermi dalla tristezza di questo abbraccio, mi faccio tornare in mente l’abbraccio tra Pertini e Zoff e di colpo mi rendo conto di essere più triste di prima.
Cristiano Cristiani