Lo spettacolo di Federico Buffa, Emilio Russo, Paolo Frusca e Jvan Sica “Le Olimpiadi del 1936” (andato in scena lo scorso weekend al teatro Ariosto di Reggio Emilia) è uno spettacolo che vince a mani basse, perché le storie di sport sono storie “larger than life”, che toccano le corde giuste, strappano una lacrima quasi sempre e, nel peggio mondo possibile (e fatico ad immaginare un paesaggio più terrificante di Berlino nel 1936), portano con sé sempre una speranza.
Certo bisogna saperle raccontare e Buffa è in effetti bravo come affabulatore. Sa miscelare alla perfezione le cose da dire, la giusta dose di umorismo, il pathos, le pause e le riprese incalzanti, e il suo ritmo narrativo è l’elemento vincente di questo spettacolo. Su tutto.
Su una sceneggiatura che ha deciso di dare a Buffa un ruolo, quello storicamente esistente del direttore del villaggio olimpico, affascinante anche lui ma non strettamente necessario, visto che tale personalità vuole solo venderci l’autenticità dell’esperienza di chi quegli eventi grandiosi li ha visti coi propri occhi.
Ma non serve. Ci saremmo fidati anche di Buffa, della sua capacità discorsiva. Non dura infatti più di dieci minuti la finzione e il protagonista non è un attore. Non lo è per professione e nemmeno per ambizione personale (si spera almeno). L’elemento mimetico non prevale. Lui è lui, uno che sa raccontare, e a teatro può anche bastare.
Vince, Buffa, anche su una regia un po’ ingenua e sui suoi accompagnatori musicisti che scandiscono le fasi del racconto – bravi ma basta – e vince anche su qualche incertezza tecnica della fonica (non so se sia dipesa dal teatro, magari piccolo rispetto alle esigenze, o al fatto che fosse la prima): troppo alto il volume e poco pulito il suono -qui all’Ariosto di solito si fa senza – .
Uno spettacolo insomma che avrebbe avuto pari impressione e risultato con una sedia al centro della scena come massimo allestimento e come filo conduttore della storia. Anzi, la Storia, quella con la maiuscola, scandita dalla sola voce narrante, ben impostata, ben costruita.
E magari, forse, con qualche immagine in più, di quelle di Leni Riefensthal per esempio.
Non che quelle utilizzate non si inseriscano alla perfezione a chiudere il cerchio del racconto, ma in effetti risultano talmente appropriate che se ne godrebbe anche di più di quanto non è stato scelto di fare.
Uno spettacolo che vince a mani basse, si diceva. Ricco di quei bei sentimenti positivi che lo sport al suo meglio regala. Attimi, momenti che come ben sanno gli sportivi di alto livello non durano e spesso si collocano in esistenze grigie e senza gloria, di tanto in tanto riscattati da quegli esempi e ci fanno sognare – noi spettatori che di esistenze grigie ci intendiamo…