Il ruolo delle riviste di informazione e cultura come TheDotCultura, diretta dall’appassionato e instancabile Piero Meucci e sostenuta dall’imprenditore Armando Sternieri, è senza dubbio di grande rilievo. Queste riviste rappresentano uno stimolo al dibattito non specialistico ma di alta divulgazione, e contribuiscono a ricucire un rapporto tra politica e cultura, tra politica e ricerca, che è decisivo per la qualità della democrazia.
L’approfondimento delle notizie favorisce infatti un esercizio critico nei confronti del potere che deve essere praticato da ciascun individuo in forma autonoma e senza tutele, ci ricorderebbe Kant, che fece dell’uso pubblico della ragione un elemento saliente del processo di rischiaramento (I. Kant, Risposta alla domanda: Che cosa è L’illuminismo?, 1784). La figura dell’intellettuale come smascheratore della menzogna, come sentinella dei cittadini e delle cittadine, arriva del resto fino a Norberto Bobbio, giudice raffinato del suo tempo e del nostro.
Da più parti oggi si sottolinea che questo rapporto si è interrotto, e si decreta la morte dell’intellettuale organico, interno al partito. E’ fuori discussione che un rapporto così stretto tra politica e cultura sia venuto meno; ciononostante. io non parlerei di isolamento degli e delle intellettuali nella torre d’avorio, come talvolta si ripete acriticamente. Oggi, al contrario, gli e le intellettuali sono molto impegnati/e in quello che per le scienze sociali si chiama public engagement, e che corrisponde al trasferimento tecnologico per le scienze sperimentali. Questo tipo di attività sono divenute del resto elemento di valutazione per le stesse università, in quanto parte della cosiddetta ‘terza missione’, accanto alla ricerca e alla didattica. Sottolinierei piuttosto una mancata volontà della politica di entrare in connessione con visioni più complesse e articolate dei problemi; in parte come conseguenza del ‘presentismo’ della politica stessa, affannata a rincorrere un consenso immediato e sempre meno interessata a riflessioni sul lungo periodo, ad analisi più articolate, non idonee a produrre messaggi univoci e talvolta semplificati, in luogo di analisi e soluzioni che la ricerca renderebbe necessariamente più complesse.
Del resto, la visione dell’uno vale uno, dell’università della vita, dello svilimento delle competenze all’interno di dinamiche politiche regressive e illiberali (pensiamo in Italia ad alcune posizioni assunte dal M5stelle, negli Stati Uniti al negazionismo di Donald Trump sul cambiamento climatico) hanno lasciato più di qualche segno. Nel discorso populista, gli intellettuali in quanto élite sono considerati inutili e pericolosi; ad essi viene contrapposta la purezza e la superiorità morale del popolo, un popolo a cui non si chiede di mettere in pratica un esercizio autonomo e critico della facoltà del giudizio, tanto meno di informarsi e di leggere, ma semplicemente di aderire al leader politico di turno in forme spesso plebiscitarie.
E’ con Berlusconi che in Italia prende avvio l’esaltazione della politica del fare contro quella del dire e del pensare, nonché un palese disprezzo per le competenze, complice anche la collusione della Lega. Ha preso così campo, nel nostro paese, un percorso dell’antipolitica che ha lasciato molte tracce. Che questo atteggiamento verso i saperi fosse profondamente sbagliato è diventato d’emblée drammaticamente evidente nella fase della pandemia, quando si è reso manifesto che della scienza, all’interno della quale pure milita il pluralismo delle idee e dei valori, la politica non poteva fare a meno. In quella occasione si è visto quanto il sapere delle scienze applicate fosse importante, e gli/le intellettuali delle scienze dure sono stati apprezzati/e proprio per il contributo che hanno dato alla comprensione di un fenomeno totalmente inedito, nonché nell’individuazione di politiche pubbliche atte a contrastarlo.
Dei caratteri dell’antipolitica fa parte anche l’ipotesi che la politica non è il risultato di una discussione tra le diverse parti che compongono il popolo, tra differenti punti di vista fondati su identità, valori e interessi, tra partigianerie. Essa è piuttosto qualcosa di facilmente discernibile utilizzando il buon senso: non serve alcuna valutazione dei dati empirici e nessun dibattito sui valori, perché ciò che si deve fare risulta fin dall’inizio evidente. Leggere e informarsi è inutile. Questo itinerario ha senza dubbio molto a che fare con la crisi dei partiti, da cui scaturisce anche il partito personale, che porta a sua volta con sé la figura dell’intellettuale ad personam.
Come ci ricorda il libro di Giorgio Caravale, Senza gli intellettuali (Laterza 2023), in questi ultimi anni abbiamo visto crescere fondazioni strutturate sulla base di rapporti personali con i singoli leader, sulla fedeltà al principe piuttosto che sulla ricerca della migliore soluzione al problema. Ne è un esempio il rapporto personale di Matteo Renzi con Massimo Recalcati e Alessandro Baricco, fedeli testimonial del suo percorso politico. Colpevole però, aggiungo io, anche un certo modo di formare le competenze nelle università e nel mondo della ricerca, cui fa capo una formazione molto spesso solo verticale, di approfondimento tematico iper specialistico, incapace di guardare ad orizzonti più ampi, di stimolare un distanziamento dai presupposti epistemologici della propria disciplina, a vantaggio di una formazione interdisciplinare, aperta al contributo di altri punti di vista.
Perché è questo che consente di ampliare lo sguardo e di sviluppare uno spirito critico. In un libro di qualche anno fa (Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino 2014), Martha Nussbaum insisteva opportunamente sull’insegnamento delle humanities e della filosofia in particolare, anche come educazione alla cittadinanza democratica, che non è solo il godimento di un set di diritti, ma capacità di mettersi al posto dell’altro/a, di provare empatia per i più deboli, di ascoltare. Perché la democrazia non è solo una forma di governo, un insieme di istituzioni, un bilanciamento tra poteri, ma una ricca cultura della individualità, che si nutre anche di uno spazio pubblico attivo.
A questa configurazione dello spazio pubblico i social non danno sempre un contributo positivo, rendendo spesso impossibile ogni discussione pubblica in questi spazi, caratterizzati dall’urlo piuttosto che dalla discussione aperta, o al massimo da conferme acritiche all’interno delle bolle in cui tutti/e siamo immersi. A questa dimensione per certi versi regressiva del confronto pubblico le riviste di cultura oppongono la possibilità di un approfondimento aperto e pacato. Alessandro Pizzorno (I soggetti del pluralismo. Classi, partiti, sindacati, il Mulino 1980) ha parlato dello spazio pubblico democratico come di una sorta di laboratorio, alternativo allo Stato, dove si sviluppano quelle idee che non sono ancora legge o politiche pubbliche; uno spazio del non conforme, che è il luogo sociale e non istituzionale del pluralismo. Ecco, io credo che un impulso importante verso questa configurazione dello spazio pubblico possa provenire dalle riviste di cultura e politica di cui Thedotcultura è una nuova e interessante parte.
E quindi auguri per questa nuova impresa!
Anna Loretoni (foto) è Preside Classe di Scienze sociali della Scuola Superiore Sant’Anna. L’articolo è tratto dall’intervento fatto il 6 aprile durante l’incontro di presentazione del novo magazine on line TheDotCultura