Che-barba-che-noia? Massì, per divertirsi basta un divano (#acasaèmeglio)

gif humourSi sa: la città, non offre niente. Alla sera, a Reggio non c’è mai niente da fare. Anche a Modena, alla sera non c’è mai niente da fare. E a Parma. E a Belluno, Potenza, Scandicci, Milano. Roma. Sempre le solite persone, i soliti ristopizza con menù apericena, le proiezioni d’Essai e i blockbuster nei multisala, le serate nostalgiche. E passi per l’estate, che tra una rassegna dello gnocco fritto, una festa della birra e una notte rosa, bianca, blu, lilla si sbarca il lunario; ma poi, c’è sempre la stessa gente, impegnata a fare le stesse cose, a raccontare gli stessi pettegolezzi con gli stessi abiti di sempre. Dov’è finita tutta quella gente interessante che c’era prima, nei circoli, nei locali, nelle strade, nelle discoteche? Facile: cercate sul divano di casa vostra. Fatto? O meglio: non pensiate ad una invasione, per carità.

Ciascuno cerchi non più lontano del divano di casa propria. Perché tutta quella vita, gente, esiste solo nella vostra memoria; e poi, nella memoria di chi una memoria ce l’ha. Gli altri, quel mondo lì non lo hanno mai visto. I circoli, le discoteche, i concerti dei gruppi di base, sono rari come i capelli di un elefante, e di sicuro non sono la prima cosa che vi verrà in mente alla domanda “descrivi cosa offre la tua città”; hanno chiuso, hanno perso mordente, si sono trasformati. E quell’emozione di tirare spallate ad un concerto punk non è che la puoi provare mentre ascolti, composto ed educato, col viso finto assorto, alla presentazione di un libro o ad un seriosissimo concerto jazz. Tutte cose belle, a volte straordinarie, intendiamoci. Però diamoci una regola: se la gente sul palco è più emozionata di quella che assiste, lo spettacolo è…… (scegliete un vocabolo a caso tra “palloso”, autoreferenziale”, “l’ultimo”).

E così, pian pianino, una volta scoperto che mangiare dolci e bere alcool è più divertente e soddisfacente che non fare sesso tanto per, alla fine la gente si è organizzata e se vuole assistere ad un concerto, vedere un film, partecipare ad un incontro se ne sta direttamente a casa, senza neanche la scomodità di doversi truccare vestire lavare auto convincere che perdere tre ore in chiacchiere futili sia un giusto prezzo per il rischio di due risate o, mai non sia, di una scopata. Piano piano, si sono tutto trincerati nel salotto di servizio, hanno fatto incetta di Viennette, di patatine e di birre e hanno investito i soldi che avrebbero speso in tre o quattro serate alla ricerca del vero amore in un impianto audio video degno di questo nome; televisore, casse, cuffie, collegamento pay e ti saluto. Viviamo nell’era delle chat e dei telefilm; il resto, la realtà che ci circonda, è ad imitazione dell’intrattenimento mainstream.

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Il problema è che il livello dell’intrattenimento mainstream non è che sia poi così alto. Prendiamo ad esempio i telefilm, che costituiscono il nucleo forte dell’offerta per sopravvivere alla noia. Un tempo la tv proponeva tre, quattro, otto serie al giorno (parliamo degli anni ’80, e non era comunque poco, se ci fate i conti); pescate perlopiù tra la sterminata,già di quei tempi, produzione americana, una nazione che non si capisce bene se abbia fatto scuola in tal senso oppure, semplicemente, non sia arrivata prima, a livello societario e identitario, al livello in cui siamo oggi con trent’anni di anticipo rispetto a noi.

Oggi, in compenso, la domanda si è talmente ampliata in termini di volumi e di varietà da rendere il mercato telefilmico non tanto polverizzato quanto atomizzato, in balìa dei tantissimi diversi desideri dei potenziali spettatori. Parliamo di potenziali e non di effettivi perché, come al solito, la produzione televisiva vive di due cose: audience, e marketing. Per il primo si tratta di ipotetiche ed ipotenuse, sapere quanta gente in effetti sta davanti allo schermo; per il secondo, siccome non sai se la gente ti farà mai delle richieste, allora la subissi di proposte. E siccome anche i metodi di fruizione sono cambiati non avrete più necessariamente una puntata a settimana, che era poi quella che passava il convento; ma siccome oggi le memorizzate per poi vederle tutte in un colpo, ecco, ve le trasmettono direttamente tutte in un colpo. Col risultato che praticamente ogni mese si dà il via a otto o dieci serie tivvù che approdano ai nostri schermi pienamente disponibili, pronte per il binge (l’abbuffata): e chi esce più di casa?

Chi ne ha più bisogno, quando la gente davvero interessante è tutta in quei pochi pollici? Dove sta la via d’uscita? Ammesso e non concesso che sia desiderabile e produttivo cercarla, probabilmente nella qualità dell’offerta. Che ormai in preda ai mille diavoli dell’isteria da ultimo punto percentuale di audience si è talmente lasciata andare all’iperproduttività da diventare sempre più scarsa. Perché tolte le serie che veramente lasciano il segno – tipo, Breaking Bad, Games of Throne, Madmen e compagnia briscola, una manciata di altre – il resto non solo va molto molto a gusti ma risente anche del calo di professionalità di puntata in puntata, di regista in regista, di serie in serie. Quasi come se si fossero arenati sull’illusione che sia meglio produrre tanto e velocemente piuttosto che bene.

Basti citare due episodi: la seconda serie di “True Detective”, tanto scarsa che quasi nessuno ha avuto la pazienza di guardarla per intero (dopo una prima stagione che, pur sopravvalutata, ha riscosso numerosi plausi) e la serie di Scorsese e Jagger, “Vinyl”, incapace di generare una sia pur minima emozione nell’arco di dieci lunghissime, soporifere puntate nonostante le indubbie professionalità, competenze e soldoni spesi dai produttori (non vedrete la seconda serie, per fortuna).

Noi prendiamo per i fondelli gli anziani che ad ogni santa replica si guardano di nuovo Colombo, la Signora in Giallo e Star Trek; ma la verità è che se anche noi siamo invecchiati male queste serie invece no, e a giudicare dalla gioventù (anche televisiva) che avanza forse due ragionamenti da passatisti dovremmo cominciare a farceli.

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