L’immagine femminile tra marketing e marketting

dieta-banana-876477Compra, compra il televisore. Sullo schermo 58 pollici e tre dita medie campeggia una donna nuda vestita, la stessa donna che nello stesso momento accarezza la tensostruttura spessa un’unghia di alluce supertecnologica, la palpeggia, ci si strofina come faceva la Gigiasa col fittone, dicesi così il normale paracarro. Compra, compra lo yogurtino, una modella ben modellata vestita nuda ci tuffa dentro lo spiritromba ed emette mugolii di piacere che stanerebbero un opossum dalla sua tanatosi, fate l’amore con il sapore. Compra, compra la macchinetta, la moglie l’amante la figlia si avvicendano strofinandosi sul parabrezza a mo’ di complicate pelli di daino con atteggiamenti che fanno pensare a ben altro ruminante mentre colui che possiede le chiavi decide chi tra esse premiare con la possibilità di guidare sul vialetto verso casa, come in una parodia di Rain Man diretta da Mario Salieri.
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Qualche dubbio che l’immagine femminile sia un pochettino sovra sfruttata per le esigenze del marketing? Se ce ne sono, sono espressi in assoluta malafede: fin qui, niente di opinabile. Casomai, sarebbe da dare maggior diffusione alla consapevolezza, universalmente diffusa tra gli addetti ai lavori, che all’immagine femminile come veicolo pubblicitario sono molto – e forse ancor più – sensibili le stesse donne piuttosto che non gli uomini. Perché se nel caso degli uomini che si godono fugacemente l’immagine della burrosa di rito appoggiata al lavello con la gonnella alzata – lo sguardo vitreo di quello che non gli interessa, sotto l’attenta vigilanza della vista periferica della consorte – si tratta di pubblicità erotica, con tutti i suoi compromessi, le sue regole, le sue dinamiche di targettizzazione incrociata, le sue complessità omo-etero e quant’altro, nel caso invece della pubblicizzazione di prodotti destinati alle donne si innesca un meccanismo molto più potente (incredibile, eh?) di quello erotico: la necessità di immedesimazione di chi guarda con l’oggetto proposto dal video, dal cartellone, dal post del social nasce dal desiderio di sentirsi perfetta, desiderabile, vincente, giusta. E fa leva sulle tane insicurezze della donna di oggi, schiacciata tra l’abitudine e la convenienza a farsi trattare come oggetto e la nuova competizione richiesta a chi voglia, o debba, sentirsi costantemente in gara, tutte le armi perfettamente affilate.
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La donna di oggi non può solo essere madre, maestra, moglie e lavoratrice: no, deve anche essere al contempo perfetta, dolce ma anche imperiosa, intelligente ma anche sottomessa, vincente ma anche comprensiva, e schiacciare la concorrenza senza sudare sotto le ascelle; un’invincibile arpia dal tenue profumo di talco. Mezzucci facili facili, come potrebbe dirvi qualsiasi creativo moderno degno di questo nome; è dagli anni ’70 che in Italia abbiamo scoperto il “trucco della donnina nuda”, e oggi i pubblicitari seri, magari fin troppo compresi di se stessi, guardano con aperto sfavore all’amante del titolare scelta per realizzare, distesa seminuda sul mucchio di piastrelle, il catalogo di laterizi della ditta Tal dei Tali.
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Tuttavia, l’abitudine è dura a morire, e le idee, per quanto sempre uguali a se stesse, possono essere arricchite da infinite variazioni, quindi la tetta in copertina continua a comparire, anche se non più come un tempo. Chi ha avuto esperienza nei decenni passati delle copertine di Panorama e dell’Espresso ricorda di cosa stiamo parlando, e ci darà ragione. Il capezzolo non funziona più? Probabilmente, no. Specialmente nei confronti del pubblico maschile, che si è poco a poco assuefatto a questa invasione pornografica, tanto che oggi getta un occhio distratto a tutto quello che non è decisamente sorprendente e che, tornato a casa, preferisce la vista dei reportage sulla pesca a quella della moglie che si finge educanda con tanto di calzino corto bianco e gonnellino plissé. Oltre all’assuefazione progressiva che porta il maschio odierno ad eccitarsi solo con due elettroshock, tre siluri di Viagra e la promessa di un abbonamento alla Juve, c’è anche da dire che l’orgoglio alla lunga si è fatto sentire, e oggi non siamo più tanto convinti che non ci stiano pigliando per il culo offrendoci come contropartita alla spesa di migliaia di Euro che ci richiedono per ogni dove un bel culo abbronzato sul depliant.
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Insomma, la cosa oltre ad avere perso un po’ di attrattiva ci sembra anche lievissimamente manipolatoria, e offende la già diradata intelligenza dei famosi nostri due neuroni. Forse una frontiera ben più preoccupante dello sfruttamento del femminile si ha oggi non tanto con la proposta del nudo semplice, quanto con quella della notizia a sfondo sessuale. Qualcuno ha detto che l’immagine della donna, il suo concetto, nel nostro Paese è spaventosamente sfruttata, ben peggio che altrove. Niente di cui sorprendersi: non abbiamo fatto altro che recepire, tardivamente come al solito, la lezione di ben altri rotocalchi scandalistici, quei tabloid all’anglosassone che, dopo avere invaso il mondo con la loro logica di schifezze, oggi (ma è già ieri) approdano ai giornalacci e soprattutto ai social, Facebook con la sua potenza visuale-informativa in prima linea. Il corpo delle donne diventa allora non già l’oggetto, ma l’utile condimento, il supporto multimediale potremmo dire, alla notizia di per sé già abbastanza intrigante.
Anzi, più intrigante del nudo, perché se di una tetta noi possiamo solo immaginare l’uso, da un racconto (corredato di tetta) ciascuno può prendere le mosse che vuole, o meglio che le sue perversioni, la sua curiosità, la sua malizia gli consentono.
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E’, insomma, un prodotto molto più versatile, molto più spendibile, che attrae l’attenzione più a lungo e la trattiene sul mezzo il tempo bastante a guardare gli spot; in più, la schifezza si può commentare, condividere, copiare, emulare e quant’altro, per una migliore diffusione del disastro. Prende così piede l’era del massacro del concetto di femminile a tutto campo, con le sue eroine ben addentro al campo della narrazione che raccontano di stupri e violenze inesistenti, che girano video porno e li immettono sul Web per poi dire che non sono state loro ed esserne travolte, che raccontano di storie di sesso, di amore, di orrore sempre più pecorecce e deprimenti, che non interessano più nessuno ma che sono sempre in grado di smuovere prima che l’intelligenza l’indignazione automatica, la chiusura della vena e del senso critico. In mezzo a tutto questo mare magnum, le storie di violenze, di degradi, di soperchierie vere, sacrosante, terribili, che vengono sommerse e corrotte e invalidate dalla marea crescente di questo tsunami di porcate invereconde il cui unico scopo è il guadagno: sotto forma di pay per click, o di un po’ di notorietà, altari sui quali si sacrificano le vere e legittime indignazioni, quelle che dovrebbero portare a decisioni in grado di preservare salute, sicurezza, dignità della donna.
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E che vengono invece piallate dalla noia, dal disgusto, dalla sfiducia generalizzata che prende chi frequenta le notizie ogni giorno, sempre più assuefatto, più distante, più desensibilizzato. In un mondo di condivisioni sballate in cui la non condivisione delle schifezze sembra essere una delle poche armi a disposizione di chi ha a cuore il bene altrui (e il proprio), il rischio è di gettare l’acqua col bambino; ossia: di non credere più a nulla, di finire per guardare solo i telefilm e di occuparsi dei casi propri. E ci vuole tanta, ma tanta pazienza nel separare il grano dalla pula, e si rischia nel ragionare con giudizio di annoiare la platea avvezza a notiziole molto più succose, più scioccanti, pettegole e brutali: da avvinazzati.
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