Era l’ormai lontano 1966 quando Berger e Luckmann buttavano lì la tesi secondo la quale la realtà propriamente detta non è, e non può essere, una cosa a se stante, preesistente a chi la vive, ma è costruita al contrario attraverso le tante interazioni sociali di ogni giorno. Goffman aveva lanciato la palla nel ’59 con la sua vita intesa come rappresentazione e i due scienziati sociali l’avevano presa al volo e rilanciata, fino a Searle, che nel 1995 sottoscriveva e confermava: la realtà è come te la racconti, e come la racconti agli altri.
Ed è questo l’aspetto che forse ai più sta decisamente sfuggendo: se racconti una realtà che fa schifo, giocoforza poi ti trovi a viverla. Il fatto che tutti noi ormai viviamo in una società composta da interazioni che nella maggior parte dei casi non sono più fisiche, vis à vis, ma bensì informative, dovrebbe farci stare particolarmente in campana: e invece no. Anzi.
Apriamo a caso una pagina di un giornale online di oggi; uno a caso tra i più noti, non stiamo a sindacare quale. Nell’ordine, dall’alto verso il basso: arresto di un ipotetico terrorista; mistero sull’uccisione del Regeni; riconquista di Palmira all’Isis; testimonianza di sopravvissuto a due stragi (video incerottato); elezioni USA e assenteisti nel nostro Parlamento; litiga col ragazzo e lo uccide con la katana; investe 4 ciclisti, omicidio stradale; la crisi spinge a passare le vacanze di Pasqua in casa; la sfida di Cruciani agli animalisti, salame alla mano; sfiorata la tragedia, camion contro pompa di benzina; Nadal disidratato. Eccetera, eccetera.
E questo, tanto per dire, è il giorno di Pasqua, festa di Resurrezione e prima ancora di rinnovamento, di gioia, di ritorno della vita. Dopo averne letti un po’ capisci che non è semplice cronaca, una simile prima pagina non si spiega certamente con le incidenze statistiche delle veline Ansia o cos’altro: è in atto un vero e proprio storytelling, la costruzione del giornale perfetto per vendere. Ossia: quello che pesca abbondantemente nelle tue paure, le conforta, le alimenta e le sostiene, ti dà la possibilità di grattarti le croste che dovresti sì starci attento, ma anche un po’ lasciarle stare – sennò, come diceva la nonna, non guariscono mai. E però, la tentazione di grattarsi è troppo forte, e va ad ogni costo soddisfatta; se possibile, anche amplificata. E condivisa, certo. Del resto, come dicevamo poco tempo fa, oggi la maggior parte dei social è costituita da questo: notizie accattivanti da poter commentare con odio e sagacia, da poter condividere facendo finta di essere emotivamente coinvolti.
Perché così rende: un sacco di condivisioni equivalgono ad un sacco di letture, un sacco di letture, ad altrettanti punti premio per la raccolta pubblicitaria, in un mercato sempre più convulso che fatica ogni giorno di più a dimostrare quale sia la vera e concreta redemption. Ma, si sa: se nessuno può dimostrarla, allora è vera; un po’ come il denaro, come il mostro di Lochness, come il sesso sui siti di incontri e il numero effettivo delle tessere sindacali. A questo punto, non sorprende affatto che Microsfot abbia dovuto ritirare l’esperimento di Tay, il software chatterbot che voleva lanciare su… quale mercato? Magari, quello delle interazioni custode / factory?
Mah. In ogni caso, qualcosa che permettesse a qualcuno di far finta di esserci, risparmiando fatica e personale. La sorpresa, che tale poi non è, è che invece di limitarsi a credersi uno psicoterapeuta – come avvenne già alla chatterbot primigenia Eliza, nei lontani anni ’60, e il bello è che i pazienti ne erano convinti loro per primi – Tay, messa all’ingrasso nel mare magnum delle interazioni dei social network, ne ha copiato per mera incidenza statistica, la media, la mediana, la moda tutte le abitudini più deleterie, finendo in pochi giorni con lo scrivere commenti razzisti e panegirici del nazismo. Inevitabile, visti i maestri che può avere avuto online.
Morale: la conoscenza priva di adeguata educazione non genera coscienza; la ragione può anche essere sveglia, ma nutrita a immondizie genererà ugualmente mostri. E la realtà che pensiamo di vivere quotidianamente è troppo spesso lo specchio di questa pattumiera nella quale ci convincono di essere immersi. Meditate gente, meditate.