Uscirà in libreria a giorni, ma dopo la presentazione-anteprima a Roma nel Museo Biblioteca del Burcardo, il 26 maggio scorso, è già stato recensito favorevolmente da più testate. E non poteva essere altrimenti, perché ci troviamo dinanzi a uno di quei “libri verità” – la definizione è dell’autore stesso – che si impongono per la pregnanza dei vissuti, la lucidità dei ricordi e la credibilità delle affermazioni.
Parliamo di Storia della RCA. La Grande Pentola (editrice Zona, Lavagna, GE, 2016, a cura di Anna Angiolini Melis ed Elisa De Bartolo con una nota Franco Migliacci) di di Ennio Melis, colui che della RCA italiana è stato per trent’anni – quelli d’oro, che vanno dalla metà degli anni ‘50 alla metà degli anni ’80 – il “deus ex machina”, l’anima decisionale. Un direttore generale insolito, che per una singolare alchimia del carattere riesce a unire il pragmatismo, il senso concreto – perfino inflessibile – del business (dopotutto la casa-madre era la statunitense Radio Corporation of America, con i cui emissari non di rado Melis dovette confrontarsi e scontrarsi), alla visione, all’idealismo artistico.
Una visione che l’autore maturò ancora molto giovane, come creatore di testi letterari e radiofonici, e che avrebbe poi travasato nell’esperienza discografica, portando la RCA a una grandezza non solo industriale, ma anche culturale: il colosso della musica leggera italiana, per volontà di Melis, avrebbe esteso la propria giurisdizione agli ambiti della cinematografia (producendo memorabili colonne sonore, classiche quelle di Ennio Morricone), della letteratura (con un tocco auto-ironico, Melis chiama “capricci” produttivi i dischi con le poesie di Quasimodo e Ungaretti, lette dagli autori stessi) e, in campo musicale “puro”, del jazz tradizionale (Petite Fleur di Sidney Bechet viene fatta incidere alla “2nd Roman New Orleans Jazz Band” e – oggi sarebbe impensabile – vende oltre 250.000 copie). Alla luce di questi fatti, non è fuori luogo accostare l’opera della RCA di Melis a quella della RAI di Sergio Pugliese, la televisione dei primi tre lustri : l’una e l’altra vere e proprie agenzie di acculturazione e di integrazione degli italiani.
Acculturazione. Qualcuno magari storcerà il naso: RCA, dopotutto, produce in prevalenza canzoni, ma qui sta un punto decisivo. Melis, che non è musicista ma è evidentemente dotato di gusto e di fiuto anche nel mondo delle note (in cui si ritrovò un bel giorno – il lettore scoprirà come – grazie alla fiducia che si era conquistato lavorando in Vaticano), decide che la selezione dei cantanti e dei brani sia supervisionata da jazzisti (il pianista Mario Cantini avrà un ruolo centrale in questo) e chiama a lavorare agli arrangiamenti “gente di conservatorio” come Ennio Morricone e Luis Bacalov.
Già così la “canzonetta” riceve uno status nuovo, di confine tra il popolare e il colto, ma il percorso della RCA andrà oltre: Melis patrocinerà i cantautori (lo stesso neologismo fu inventato da lui): alla RCA troviamo – tra molti altri – Tenco, Paoli, Endrigo, Ciampi, De Gregori, Dalla. Il testo poetico, surreale, o “impegnato”, trova un suo spazio autonomo, definitivo, dando impulso a un’onda nuova nella canzone italiana: si arriverà così ai vertici creativi di Paolo Conte (in forza alla RCA nel decennio 1974-1984), le cui canzoni ben si connettono alla musica totale teorizzata da Giorgio Gaslini, così come, sul versante dei testi, si dilatano in una “poetica totale”, che spazia dal neo-realismo al surrealismo. Di tutto ciò, RCA è stata incubatrice.
Ma torniamo a Melis e alla sua narrazione. Il crescendo degli anni ’60 (iniziato con Il barattolo, cantata da Gianni Meccia, e Legata a un granello di sabbia, portata al successo nell’estate del 1961 da Nico Fidenco) raggiunge l’apice al Festival di Sanremo del 1971, quando tre canzoni sfornate dalla RCA (Il cuore è uno zingaro, Che sarà e 4 marzo 1943) si classificano ai primi tre posti.
E’, come si suole dire, il trionfo della gestione Melis, ma nel libro, in questo come in altri casi di vittorie personali, traspaiono soddisfazione, compiacimento per il “premio” a un impegno faticoso e costante, qualche volta anche per la sconfitta di avversari rancorosi, ma non c’è trionfalismo, mai, né cinismo. C’è piuttosto, in tutto lo svolgersi del libro, una tendenza alla misura e all’analisi psicologica (possibile, quest’ultima, solo grazie a un senso del limite che favorisce l’attenzione selettiva), tali da rendere la lettura più “intimistica”, più personale: è come se Melis, che pure era persona riservata e aveva scritto questo libro in forma di appunti, quasi di “diario” e di bilancio, volesse far entrare il lettore nelle situazioni, nella carne viva delle dinamiche umane, negli sforzi, nelle gioie, nelle amarezze e negli scrupoli, nell’avventura sua e della sua “creatura”, la RCA italiana: non una entità astratta, ma una realtà fatta di persone, con ruoli di primo o di secondo piano, che l’autore volentieri ricorda e che sembrano essere sempre, volenti o nolenti, coinvolte nei suoi vissuti.
Dunque, anche se l’individualità di Melis “dirige” il racconto, una coralità di fondo lo pervade. Con risultati a volte toccanti: sono da leggere e da rileggere le pagine in cui Melis racconta della sua amicizia, anche ludica, con Luigi Tenco, e della sua pena per non essere stato presente a Sanremo la sera della tragedia (era al capezzale della madre, appena operata), e sostenere il cantautore nelle ore dello scoramento. Così come da meditare, per la loro autenticità umana, quasi paterna, sono le pagine dedicate al rapporto – tenacemente benevolo ma purtroppo, alla fine, non risolutivo – con il “maudit” Piero Ciampi. E ancora quelle riservate alla insistenza – questa sì, vincente – con la quale Melis, quasi da psicoterapeuta di scuola comportamentista, riuscì a fare superare a Lucio Dalla, con una miscela di sollecitazione fiduciosa e di “ricatto”, la sua fobia rispetto allo scrivere i testi delle canzoni. Un problema dal quale il bolognese mostrò di essere uscito un bel giorno – e la cronaca che ne fa Melis è accattivante – facendogli ascoltare, prima di andare a pranzo nella mensa aziendale, Come è profondo il mare, titolo che a prima vista fa il verso a How Deep Is The Ocean, scritta e musicata dall’insigne Irving Berlin (quello di Cheek To Cheek e White Christmas), ma che ha rimanda a ben altre tensioni liriche. Anche questo era Melis: un catalizzatore di abilità nascoste, molto più che un “talent scout”.
A conferma del suo fine talento analitico, si possono segnalare i paragrafi dedicati a Baglioni, nei quali, sia pur con elegante misura – gli bastano due pennellate – Melis fa un quadro caratteriologico che non lascia dubbi sulle ragioni per cui il cantante romano si allontanò dalla RCA.
Lo “psicologo” Melis sembra aver ben chiaro come l’aneddoto sia come una spezia che insaporisce la narrazione. E ad esso fa ampio ricorso, dall’inizio alla fine, divertendo e insieme facendo riflettere chi legge. Due aneddoti tra i più felici sono di intonazione ben diversa l’uno dall’altro: sottile il primo, misuratamente sboccato il secondo.
Il protagonista del primo è il grande Franco Migliacci, il più efficace paroliere (categoria intesa qui in senso alto, di “mago” della parola) nella storia della canzone italiana. Quando propone In ginocchio da te per Morandi, Melis all’inizio si oppone, ritenendo il testo inadatto a un giovincello dai modi allora piuttosto ruspanti. Quando poi dà il placet e il disco esce, ottenendo un successo straordinario, Migliacci escogita un’affettuosa revanche: quando deve entrare nell’ufficio di Melis – “Vieni, Franco…” – lo fa mandando in avanscoperta un ginocchio, sul quale batte una mano a mo’ di applauso, reiterando l’operazione più volte, quasi a farne un tormentone. Migliacci è stato l’autore del maggior numero di testi di canzoni di successo della RCA, e ancor prima, non si può non ricordarlo, della “chagalliana” Nel blu dipinto di blu (Volare).
Il secondo aneddoto ha come protagonista il celebre pianista Arthur Rubinstein, il quale aveva il vezzo di sedere nel bar aziendale intingendo un biscotto dentro un uovo alla coque. Il caso volle che un giorno un’aspirante cantante di borgata, entrata nel bar, si imbattesse nel mitico esecutore proprio mentre stava compiendo la delicata operazione e gli si rivolgesse più o meno in questi termini: “Bravo er nonnetto che se magna l’ovetto”, ricevendo un’aristocratica occhiataccia da parte del maestro.
Così è la vita, ce lo insegnano gli aneddoti. Dispari, piena di equivoci. E a volte con i conti che non tornano, come non tornarono a Ennio Melis quando negli anni ’80 la discografia fu assediata dalle nuove tecnologie “riproduttive” (i CD), quando la qualità cominciò ad essere affossata dalla quantità, da una popolarità non più spontanea – magari ingenua, eppure vera, come nei decenni precedenti – ma piuttosto montata a tavolino da manipolatori che forgiavano stolte subculture musicali. Insomma, quando l’apparenza divenne regina. Fenomeni che seccavano Melis e che, comportando massicce sforbiciate nella produzione e negli organici (dunque licenziamenti), giunsero ad affliggerlo, anche perché gli parvero “simmetrici” a quel che gli era capitato in entrata alla RCA: uno dei primi atti che dovette compiere, nel 1956, fu il licenziamento di un centinaio di dipendenti, provvedimento che, benché necessario (si trattava per lo più di “ciondoloni”, scrive Melis) e all’epoca non impugnato dai sindacati, aveva lasciato un segno. L’amore per la famiglia e per il lavoro, il rispetto per la dignità umana, erano nel codice interiore di Melis, che – lo sottolinea nel libro – era tra i primi “fan” dei suoi artisti e sentiva l’importanza dell’empatia, della vicinanza, anche dietro apparenze da “eminenza grigia” (il nostro non era un presenzialista) che qualcuno trovava coriacee. Ma non c’è dubbio che, come nella vita privata – Melis ricorda la nostalgia per la famiglia durante un training in America – anche nel lavoro era decisiva la cifra umana di questo fiorentino di origini sarde, arrivato a Roma nell’ottobre del 1945 a bordo di un camion alleato senza niente, tranne la conoscenza della lingua inglese (nutrita dall’amore per Shakespeare) e la fantasia di giovane autore. Sembra allora provvidenziale l’approdo di Melis in un ruolo decisionale, che gli permise di spargere allegria, e anche di più : gioia, in un paese che non aveva ancora dimenticato le miserie della guerra.
Questo ci ha lasciato Ennio Melis: una eredità professionale ed etica di valore, ora accessibile a tutti grazie agli appunti che una moglie amorevole, Anna Maria Angiolini Melis, e la sua amica Elisa De Bartolo hanno “cucito” e sistemato con passione e competenza, contribuendo – mediante questo progetto editoriale fatto proprio, con coraggio e professionalità, dall’Editrice Zona – a ristabilire la verità dei fatti dopo le tante distorsioni denunciate in itinere dallo stesso Melis, e dovute ai “si dice”, alle mormorazioni, ai piccoli complotti da retrobottega.
Storia della RCA è un viaggio dell’anima, sulle ali di una scrittura fluida e avvincente, attraverso territori e vicende dell’Italia musicale e industriale. Da un lato, il libro emana nostalgia per un tempo che, pur tra luci e ombre, resta tra i più significativi, effervescenti, creativi; dall’altro, sprizza idee ed energie che ancor oggi potrebbero essere tesaurizzate per un riscatto della scena musicale italiana. Perché, se è carica di verità, nella introduzione al volume, la sofferta protesta di Elisa De Bortolo, secondo cui lo smantellamento della RCA, anche nella sua struttura “corporea”, è stata una colpevole sciagura tutta italiana, non meno profetico è il finale della nota di Franco Migliacci, il quale aspetta, come in una divina suggestione, l’arrivo di un input di Ennio per scrivere un altro libro, insieme, come voleva l’amico scomparso. Quasi una continuazione – viene da dire – di quello che i due hanno già idealmente scritto, con il loro lavoro, nei cuori allietati di tanti italiani.
In ogni caso, il libro resta aperto. L’acqua della Grande Pentola di Melis, in qualche interfaccia della realtà, bolle ancora.