Firenze – Centodieci anni fa iniziò la guerra di Libia. Ma come ebbe origine questa infausta avventura coloniale?
Dopo la disfatta di Adua (1898) e la fine dell’avventura abissina, l’orgoglio nazionale italiano era stato ulteriormente mortificato, agli inizi del XX secolo, dal Protettorato francese sul Marocco.
I nazionalisti cominciarono allora, a puntare gli occhi sulla Tripolitania e la Cirenaica, l’unico territorio del Nord Africa di cui gli europei non si erano ancora impadroniti.
Si assisté a una campagna di stampa che poggiava su due capisaldi: 1) La Libia era una terra ricca e gli italiani non sarebbero stati più costretti a emigrare in Sud America, tanto più che in Libia vivevano già molti nostri connazionali 2) se fosse caduta in mano alla Francia, alla Gran Bretagna il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo ne sarebbe risultato compromesso.
Si sosteneva poi, che la conquista sarebbe stata poco più di una passeggiata militare, perché l’Impero ottomano non era interessato a quella lontana provincia.
Insomma, una terra così vicina, scarsamente popolata e fertile, appariva davvero “La nostra Terra promessa” come s’intitolava un libro di Giuseppe Piazza che divenne il successo editoriale del momento. Così, ignorando quanti affermavano che la Libia era una terra povera e avrebbe avuto bisogno d’investimenti che l’Italia non era in grado di sostenere, vari opinionisti calcarono la mano sulle ricchezze minerarie che la popolazione locale non sfruttava, sugli oliveti, i vigneti, le palme da datteri, Si citavano spesso autori classici: testimonianze antiche di venti-venticinque secoli e, per di più, male interpretate. come quando L’Idea Nazionale si appellava a Erodoto
C’erano, peraltro, molte voci contrarie, a cominciare dai socialisti: e non solo in nome di un’ideologia anticolonialista ma anche per ragioni di convenienza. Si riteneva che la Libia non avrebbe dato terra coltivabile ai contadini meridionali (uno “scatolone di sabbia” la definì Salvemini); mentre le spese militari, avrebbero aumentata la pressione fiscale.
Cesare Lombroso, nell’ articolo Il pericolo tripolitano, affermò di temere che inebriata dalla vittoria, l’Italia avrebbe potuto rivolgersi non verso una crescita della democrazia ma verso l’imperialismo ed il militarismo (cfr. S. Romano, La quarta sponda, Milano 2005 p. 28).
Intanto, si asseriva che se i francesi o tedeschi si fossero impadroniti delle miniere di zolfo, avrebbero fatto una concorrenza spietata a quelle siciliane; circa la fertilità del terreno, si prevedeva che il lavoro italiano avrebbe fatto miracoli.
E Giolitti? Il suo carattere pragmatico non cadeva certo in queste suggestioni. Probabilmente decise la guerra per motivi di politica interna, per recuperare consensi a destra dopo essersi spostato a sinistra con la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita. Temeva ,inoltre, di suscitare gli appetiti delle grandi potenze, ben più attrezzate ad una simile impresa, o non voleva contrapporsi all’ondata crescente di nazionalismo?
Intanto, mentre di cantava Tripoli bel suol d’amore gli italiani erano suggestionati da quanti parlavano di immensi frutteti e di due milioni di palme da datteri nelle oasi. Per di più, si sottolineava che questa sorta di Eden era a portata di mano perché l’Impero turco era in piena decadenza e la popolazione araba, che attendeva di essere liberata ci attendeva a braccia aperte..
Quando testimoni diretti ribattevano che in Libia la popolazione era ostile agli occidentali, si mutava versione e si sosteneva che era un sacro dovere aiutare i coloni italiani minacciati dal sentimento xenofobo. Si parlò di gravi minacce contro gli italiani che vi lavoravano
Ad accrescere la pressione sull’opinione pubblica furono le narrazioni delle difficili condizioni dei nostri emigranti. Il giornalista e scrittore Giuseppe Bevione sottolineò che l’Italia avrebbe potuto dare loro una nuova patria sulle sponde del Mediterraneo. Poi Bevione si recò in Tripolitania da dove inviò una serie di corrispondenze descrivendo l’oasi che circondava Tripoli come una sorta di Eden (P. Maltese, La Terra promessa La guerra italo-turca e la conquista della Libia 1911 – 1912, Milano 1976 p. 44).
In realtà – rilevarono vari oppositori – le terre migliori erano tutte coltivate e in queste zone c’era un’alta densità di popolazione; quindi, non sarebbe stato possibile ottenere concessioni per gli italiani..
Eppure, il nazionalista Enrico Corradini teneva conferenze parlando di immense aree coltivabili e di 3 milioni di palme da datteri. Scrisse ne L’ora di Tripoli di aver visto olivi fittissimi, per ore ed ore, viaggiando da Cirene a Bengasi e citava Erodoto come testimone che l’altopiano della Cirenaica era letteralmente coperto di grano e d’orzo. Ma sopra ogni altra considerazione, era l’eredità che ancora ci restava dell’Impero romano.
La pressione dei nazionalisti divenne parossistica: si espresse timore per imminenti mosse francesi e inglesi. Ne seguirono interpellanze in Parlamento nelle quali si sosteneva che alcune carte britanniche comprendevano vaste porzioni della Libia orientale e che i francesi, sconfinati dalla Tunisia, si erano già impossessati di oasi importanti.
L’ultimo grido di allarme fu il timore che i coloni italiani abbandonassero la Libia per tornare in Patria ad aumentare la massa dei disoccupati
Constatando che la campagna dei nazionalisti aveva ormai coinvolto strati sempre più ampi dell’opinione pubblica, Giolitti cavalcò la tigre e lo fece con la sua proverbiale determinazione. Rifiutò di prendere in considerazione le proposte concilianti del governo turco Rispose che le province libiche erano in una situazione di completo disordine e gli italiani avrebbero occupato i territorio della Tripolitania e della Cirenaica.
Invano la Sublime Porta si mostrò ancor più remissiva e concesse all’Italia di governare la Libia dietro un indennizzo in denaro e il mantenimento di una sovranità nominale turca.
Il 29 settembre, dopo la formale dichiarazione di guerra, la flotta italiana iniziò il cannoneggiamento di Tripoli. Il 5 ottobre le prime truppe sbarcarono senza incontrare resistenza perché la guarnigione turca si era ritirata nell’interno. La spedizione cominciava in un clima di festa; in Italia si cantava che i turchi “ nun so’ boni ‘e tené manco una luna / e ne tèneno mezza solamente” (Maltese, La Terra promessa,cit.)
Si parlò di un rapporto paterno fra conquistatori e la popolazione locale. Ma l’8 ottobre i turchi ricomparvero sulle dune Si scavarono trincee ai margini dell’oasi che erano un labirinto di case e di orti recintati, un terreno difficile da controllare. Il maggior pericolo veniva, però, dai guerriglieri arabi che sbucavano dal nulla come avvenne a Sciarra-sciat. Il clima mutò radicalmente: iniziarono le perquisizioni le fucilazioni, l’internamento di arabi ritenuti pericolosi.
Fece seguito la deplorazione dell’opinione pubblica internazionale che suscitò indignazione in Italia. Nessuno infatti, aveva protestato per le repressioni operate dai francesi e dagli inglesi nelle loro conquiste coloniali. Ma ciò era avvenuto alcuni decenni prima. Ormai si era nel XX secolo e c’era una nuova sensibilità per i diritti umani. Per di più, la Turchia era uno stato con un ordinamento di tipo europeo e non si poteva parlare di popoli barbari da civilizzare.
La delusione più grande fu, però, l’atteggiamento della popolazione locale che non aveva accolto gli italiani come liberatori. Così, dopo Sciarra Sciat si passò dalla benevolenza alla repressione; gli arabi furono considerati “traditori” mentre, ad essere tradite erano state le attese indotte da una campagna di comunicazione a senso unico.
Foto: formazione aerea dell’Aviazione Italiana, 1941. Tratta dal diario di Michele Miraglia, “La mia Libia” edito da StampEditore