l’Europa indietro su tutti i nuovi sistemi tecnologici industriali

Antonio Gozzi, Federacciai: Italiani traduttori dei valori occidentali

Realismo, è la magica parola che Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, porta come un mantra nel corso del Convegno Europa 2024 che il 12 gennaio scorso si è tenuto a Firenze, nella sede della fondazione circolo Rosselli.  “Dobbiamo abituarci ad abbandonare una retorica europeista che continua a metterci in competizione” continuando magari a ritenerci i primi della classe, dice Gozzi. Perché, vista dal punto di vista economico industriale, “chi guarda e compara la competitività del nostro sistema alla competitività dei sistemi industriali degli altri, si accorge che lo scenario è drammatico”.

E’ questo il punto da cui si deve partire, secondo il presidente di Federacciai. “Se continuiamo a fare ragionamenti astratti rischiamo di rimanere soltanto (per un altro po’, ma neanche per troppo) un grande mercato di vecchi, ricchi, che ci impoveriscono fino a quando cessiamo anche di esserlo”. Lo dice un imprenditore internazionale, che ha aziende in Europa e fuori Europa, presente in 40 paesi del mondo, che ha un osservatorio straordinario, privilegiato, e vede ciò che succede in Usa, Cina, India.

“Noi oggi siamo terzi – continua Gozzi – non esiste una grande impresa europea fra le prime 10 nel mondo. Siamo indietro, drammaticamente indietro, su tutte le aree e su tutti i percorsi dei nuovi sistemi tecnologici industriali, dall’AI, alle biotecnologie, alle tecnologie verdi. Su tutte le aree in cui c’è una copertura intellettuale siamo indietro”. Un ritardo che da almeno 15 anni si accompagna al fatto che i nostri tassi di crescita sono più bassi rispetto a quelli americani e cinesi. “Ciò è avvenuto nonostante l’Europa abbia usufruito di due straordinarie condizioni: un’inflazione praticamente pari allo zero e tassi d’interesse che sono diventati quasi negativi in molti momenti, e che avrebbero consentito e facilitato investimenti, insieme a un prezzo dell’energia particolarmente basso, soprattutto per la Germania”.

Germania, ovvero un caso particolare, spiega l’imprenditore, “dal momento che approfondendo il tema, si scopre che i tedeschi avevano instaurato con la Russia un canale privilegiato che li ha tenuti in piedi per un sacco di tempo e che li sconvolge oggi, perché i due pilastri del modello di business tedesco (quando parliamo della Germania parliamo del paese più importante d’Europa, e dobbiamo stare molto attenti in quanto noi siamo strutturalmente legati, come sistema industriale, all’Europa), è saltato: tassi di interesse bassi, prezzo dell’energia privilegiato dai russi, esportazione monstre verso l’Asia e la Cina. Lo stato di confusione è totale”. Il punto è questo: nonostante condizioni al contorno particolarmente favorevoli, “abbiamo meno crescita, abbiamo perso spazio competitivo e siamo destinati a perderlo”.

Se questo è il quadro, cosa si può e deve fare? Risposte necessarie, dice Gozzi, “dal momento che, quando non c’è più industria e non c’è più benessere, il primato sociale crolla, visto che non possiamo distribuire la misera, distribuiamo la ricchezza se la generiamo”. Per quanto riguarda la politica industriale di Bruxelles, i fatti non sono promettenti. “Dal punto di vista siderurgico, non c’è una sola grande area economica del mondo che abbia rinunciato a produrre acciaio, perché si creano nuove dipendenze strategiche”.

Mettendo i fari sulla produzione dell’acciaio, “ in Europa – spiega Gozzi – si producono  150milioni di tonnellate di acciaio, 90 prodotte con gli altiforni tradizionali e 60 con i forni elettrici. Noi italiani siamo i primi del mondo in termini di produzione di acciaio decarbonizzato (ovvero prodotto con forni elettrici, ndr). Perché? Perché su 24 milioni di acciaio prodotti, 20 milioni sono decarbonizzati. Non esiste altro paese al mondo che abbia una percentuale pari all’80% di acciaio prodotto con forni elettrici. In altre parole, occupiamo uno spazio molto favorevole nella classifica della produzione d’acciaio decarbonizzato e vogliamo arrivare a essere i primi come sistema Italia a produrre acciaio completamente decarbonizzato”.

La situazione del nostro Paese a livello siderurgico è perciò tale che non ci si deve più preoccupare dello Scope 1 (ovvero delle emissioni GHG generate direttamente dall’azienda), bensì dello Scope 2, (ovvero delle emissioni indirette generate dall’energia acquistata, acquisita e consumata dalla società). “5 Abbiamo fatto una grandissima battaglia per introdurre, dentro la tassonomia, le carbon tax, dal momento che abbiamo un banco di turbogas ancora molto efficiente, siamo super infrastrutturati dal punto di vista del gas, perché dunque le carbon tax non vengono applicate al turbogas? Bisogna trovare una soluzione, e la soluzione è usare il gas come energia della transizione fino al nucleare. Invece, dopo una lunghissima battaglia, il turbogas non è rientrato nella tassonomia (i criteri di individuazione delle fonti di energia sostenibili sono del 1 gennaio 2024). Il motivo, si brucia gas. La questione a questo punto diventa:  se ti ho consegnato una tecnologia che consente di utilizzare gas decarbonizzato, perché non accettarla? A questo punto, non è più una questione economica, ma assume il carattere di una scelta religiosa”..

Tornando all’acciaio, si è introdotto il meccanismo del Cbam. “Il Cbam è un dazio che, invece di essere giustificato dalla difesa delle industrie nazionali, è giustificato dall’ambiente. In altre parole si dice che, essendoci paesi che non hanno aderito al protocollo di Kyoto e quindi non hanno i costi dei paesi che vi aderiscono, per competere dobbiamo bilanciare un po’ la situazione. Ma il sistema Cbam è particolarmente complesso, e difficilmente applicabile, in particolare sui prodotti assemblati, ed è facilmente aggirabile. I certificati di C02 danneggiano anche le acciaierie europee, dal momento che dal 2028/2029 non potranno più usufruire dei certificati gratuiti, visto che tutti gli altiforni d’Europa (che funzionano a carbone) dovranno essere chiusi. Inoltre, affiancare i certificati gratuiti alla protezione della Cbam è stato considerato dalla commissaria Verstager un doppio aiuto di Stato e perciò sono stati eliminati, provocando lo “spiazzamento” dell’acciaio prodotto dal carbone”. Per scendere nel concreto, il caso Ilva.  “Per produrre 4 milioni di tonnellate di acciaio con gli altiforni a carbone, emette 8 milioni di tonnellate di C02, a 100 euro a tonnellata, spendendo 800 milioni l’anno”, informa Gozzi. Il che significa, pressappoco, mettere la parola fine all’intera vicenda. Una situazione che si ritrova in tutta Europa.  

Ma c’è un altro problema che riguarda i forni elettrici. “Possono produrre tutto l’acciaio che si vuole, tranne una tipologia: quello che serve per le carrozzerie delle auto. Perché in questo caso dev’essere acciaio totalmente pulito. Quando si ottiene acciaio col forno elettrico, nel rottame si trovano degli indurenti che vanno benissimo per le lamiere o gli acciai duri, ma non per gli acciai, morbidi, che servono per le carrozzerie. L’Europa senza neanche un’analisi costi-benefici, ha deciso che l’automotive europea dal 2029 deve andare a comperare l’acciaio per le carrozzerie da qualche altra parte, creando una dipendenza strategica”.

Economia circolare, magica parola. Eppure, qualcosa non funziona. “I distretti siderurgici italiani sono la più grande macchina di economia circolare d’Europa – spiega Gozzi – nessuno ricicla 25 milioni di tonnellate di rottami. Stiamo battendoci allo strenuo da dieci anni perché l’Europa riconosca i rottami come materia prima strategica. Non abbiamo miniere di niente. L’unica miniera che abbiamo è quella del rottame. Ogni volta che parliamo con un funzionario della Commissione europea, per mettere il rottame nella lista delle materie strategiche, spiegando che facciamo economia circolare, e quello del rottame è il più grande sistema di economia circolare, non riceviamo risposte positive. Provammo nel 2014 con Tajani commissario all’industria. Ci eravamo arrivati, addirittura si era arrivati a votare una norma che poneva un dazio nei confronti dei rottami che provengono dai Paesi non aderenti al Protocollo di Kyoto. Norma bocciata in Commissione”.

Cos’è dunque che si oppone, secondo Gozzi, a una realistica politica economica che salvaguardi le nostre produzioni europee dell’acciaio? E’ qualcosa “ assimilabile a un fascio di forze con dei pilastri. Il primo pilastro, è il mercatismo e globalismo sfrenato di alcuni dei maggiori interpreti economici della nostra epoca, per cui il problema dell’industria europea non si pone. Se l’Europa non produrrà più acciaio, non è un problema, si andrà in Indonesia ad acquistarlo, dove oltretutto, si dice, costa la metà. Peccato che il prezzo dell’acciaio sia internazionale, e quindi costerà come quello italiano, più il costo del trasporto. Il secondo pilastro di questo fascio di forze, è un ambientalismo ideologico religioso, assimilabile a una religione neo-pagana. Su questo tema, bisogna che anche il sindacato si pronunci contro l’estremismo ambientalista, senza timore, perché non possiamo rimanere soli a difendere l’industria europea. Ci sono 14 milioni di persone che in Europa lavorano nel settore dell’automotive. Lascio a ciascuno le proprie considerazioni su cosa potrebbe accadere, se gli eventi procederanno secondo quanto ricostruito”.

Se questo è il quadro, “serve un cambiamento culturale importante, di cui sono i socialisti, i socialdemocratici a dover essere protagonisti. Se continuano a scimmiottare movimenti culturali di altro tipo, che hanno un’egemonia culturale anche sulla sinistra, perché non ci si occupa più di lavoro, perché non si riconosce che ci sono milioni di lavoratori impegnati in queste industrie e queste industrie vanno protette e salvaguardate, è finita”. Ma il problema , in realtà, è più allargato e generale, e, dice Gozzi, ha a che fare anche con il cambiamento geopolitico in atto. “Il baricentro europeo che fino ad oggi è stato il baricentro franco-tedesco, che considera l’Italia paese di gai raccontatori di storie, mentre la realtà è che su 1200 miliardi di fatturato ne esportiamo 600 miliardi e quindi facciamo paura, perché l’unica spiegazione sulle nostre cifre è la competitività diffusa del nostro sistema, si abbassa e diventa mediterraneo. Algeria, Tunisia, persino Libia”.

La riflessione è che ruolo avranno gli italiani in questa nuova sistemazione dell’Europa. Nei prossimi anni, secondo Gozzi, gli italiani potrebbero rivestire un ruolo importantissimo in quanto “traduttori dei valori dell’Occidente” dal momento che “non ce la fanno i francesi, i tedeschi, gli inglesi, gli americani. Gli italiani ce la fanno, grazie ad un’affinità culturale e a un’empatia nei confronti di quei Paesi che nessuno in Europa ha. Dobbiamo quindi giocare il ruolo di traduttori dei valori dell’Occidente”. Nei confronti ad esempio della Tunisia “un Paese povero, che non ha gas, non ha petrolio, ma con una popolazione molto giovane. Potrebbe essere un alveo industriale formidabile, per l’industria italiana”.

Ma quale potrebbe essere lo spazio competitivo dell’Europa e in particolare dell’Europa meridionale? Intanto, dice Gozzi,  non è possibile “distinguere tra costruzione di uno spazio competitivo puro e sistemi di sicurezza strategici. Gli italiani, credo, dovrebbero ritagliarsi quello spazio di traduttori dei valori occidentali nel Mediterraneo di cui sopra, nei confronti di quei Paesi che cercano benessere ma anche forme nuove di democrazia. Gli americani non comprendono, hanno scambiato rivolte islamiche per delle primavere arabe. Ho proposto all’Aspen di affidare a due centri di ricerca, uno americano e uno europeo ovverossia italiano, un’analisi su quelle che possono essere le complementarietà e le sinergie di un’area economica occidentale costituita da Canada, Stati Uniti, Messico, Europa, Giappone, Australia – conclude il presidente di Federacciai –  se vogliamo parlare del futuro senza retorica, noi ci troviamo lì”.

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