Scorrendo le pagine dei quotidiani e sentendo il rinfuso e bisbetico vociare del mercato televisivo viene da interrogarsi su cosa sia l’Europa e, soprattutto, su cosa sia diventata.
Prendi un libro, quasi per caso, lo trovi in una libreria del Ghetto di Roma, in uno di quei pochi posti benedetti dall’essere stati dimenticati dal mondo contemporaneo; lo leggi ed il tuo pensiero, la tua idea di Europa, la tua Europa, improvvisamente prende forma.
Magia della scrittura, magia delle parole che danno corpo e sostanza ad un pensiero profondo: parole che esaltano la dimensione dello spirito.
Sì, in fondo il lettore è giusto che lo sappia, sia avvisato che qui è tutta una questione di spirito e materia, della poesia che si oppone alla prosa, di un “cunto” siciliano che si staglia nel cielo stellato sopra il lago bavarese di Starnberg.
É uno struggente grido di amore per un’idea, l’idea di Europa, un’idea che sta sparendo dissolta nell’inquietante anonimato delle burocrazie centrali.
Un’Europa, quella dipinta dal lituano Czestaw Milosz (“La mia Europa”, 1959), nella quale la complessità e gli intrecci relazionali non erano dati dall’egoistico capriccio del singolo, dalla sua volgare volontà di emergere a tutti i costi (che poi, a ben vedere, é testimonianza della sua profonda solitudine) ma dalla ricchezza eterogenea delle classi e dei popoli che camminavano lungo le sue strade e soprattutto dal diffuso senso di appartenenza ad una comunità, ad un gruppo ed alle sue sorti.
Un’Europa fatta di appartenenze, religioni ed idee. Perché l’Europa di Milosz, la mia Europa, è proprio questo: non é solo un luogo geografico ma è innanzitutto il luogo della memoria, il luogo dello spirito, il luogo dell’identità; un’identità millenaria che permeava coste, boschi e vicoli; un’identità compatta ed unitaria, figlia ed al tempo stesso debitrice delle sue mille e mille diversità.
Un’identità di profumi e sapori, di Terre oramai scomparse (come le terre dell’Est, le terre di Milosz, quelle dell’Impero AustroUngarico e dell’antica Pomerania), coacervo di lingue e dialetti, di fede e razionalismo.
Un’Europa figlia delle sue contraddizioni e delle sue tradizioni e perché no, anche dei suoi sbagli, delle sue processioni e dei suoi cimiteri (che altro non sono, come insegnava Gonzague de Reynold, che “una parte della città che si é trasferita a vivere di fianco all’altra, quella dei vivi”) ma soprattutto, più di ogni altro, un’Europa figlia delle sue frontiere; già, dei suoi confini, dei valichi e delle vie millenarie che li attraversano, perché, come sosteneva lo storico polacco Krzysztof Pomian, l’idea di frontiera è imprescindibile per dare un senso alle cose umane e “la storia d’Europa è quella delle sue frontiere”.
Penso all’attuale Europa, a quella che chiamano (e forse chiamate) Europa, ai collegamenti davanti all’Eurotower, all’anglofonia ostentata dagli inviati (e non solo) di fronte ai suoi vetri specchiati, ai progetti (aimé) scolastici eurofanatici.
Penso a tutto questo e vedo dinnanzi a me l’ordinato ordito di pietra delle cattedrali dell’Europa di Milosz, della mia Europa, a quei “re addormentati in un groviglio di gigli di pietra, simili a disseccati insetti invernali”.
È proprio questa la vera Europa, la mia Europa.
Alessandro Nironi Ferraroni