Letture d’estate: La Stella del Montecchio, novella di Massimo Gennari

Firenze – Finalmente si è deciso a rientrare a casa. Là sulla collina, oltre l’Albegna, dietro il Poggio di Samprugnano. Quel podere che l’Ente Maremma gli ha concesso dopo tanti anni di lavoro alla fattoria della Triana, nel feudo dei conti Piccolomini.

Il fattore Bartolo Ponticelli volle persino portarmi in dono al nuovo assegnatario: e mi hanno chiamato Stella, per via di quella marcatura facciale, quella macchia bianca che porto da sempre sulla fronte. Avevo tre anni, balzana da uno, “come me non c’è nessuno”, quando cominciai a trasportare il padrone per ogni dove.

E anche questa volta l’ho portato a Samprugnano, per la festa del paese: la prima domenica dopo ferragosto, per la Madonna delle Grazie.

Era sceso in stalla, come al solito, nel tardo pomeriggio. L’afa stava calando e una lieve brezza salmastra agitava i quercioli del Montecchio. Sono stata legata ai venti. Ci siamo preparati al meglio: capezza, imboccatura, barbazzale, pettorale, sottosella, bardella, reggicoda. Una spennellata di grasso di trattore alle unghie; i piedi, suola e forchetta, dall’ultima ferratura di Mauro, il fabbro di Samprugnano, erano  ancora in buone condizioni. Appoggiata alla scala di pietra, è bastato poco al padrone per inforcare la sella. Si poteva partire.

Il sentiero che scende all’Albegna attraversa quasi interamente un fitto bosco di lecci, cerri, ornielli, cornioli, sorbi. In val Zeccaia di questa stagione c’è purtroppo il paradiso degli assilli, delle mosche, delle mosche cavalline che noi chiamiamo mosche culaie, con quegli occhi verdi e il corpo simile ad un’ape e quelle zampe a uncino, che dove si attaccano muoiono, e che si annidano formando una corona intorno all’ano, sotto la coda, nelle pieghe inguinali e intorno alle mammelle. La cosa mi infastidisce da sempre, volto la testa fin dove può arrivare, frusto i fianchi con la coda, mi batto il ventre con il bulbo del tallone.

E poi ci sono le famigerate zecche. Non è la prima volta che mi si aggrappano con le loro otto zampe e i rostri acuminati. Vogliono il mio sangue, si cibano del mio sangue e così possono riprodursi. Se non ci fosse il padrone che ispeziona ogni giorno il mio mantello, e quando vede quella macchia scura dello scudo dorsale riesce ad estirparla con grande pazienza, non saprei come fare. Sono gli inconvenienti del mestiere. Tuttavia il guado è un vero sollievo. Fortunatamente c’è ancora acqua, fresca e trasparente, da bere con piacere, i nodelli e gli stinchi a guazzo, raspando con il piede, così gli schizzi d’acqua mi bagnano il ventre, anche se il padrone preme sui fianchi per dire di affrettarsi.

Oggi abbiamo imboccato il sentiero che  costeggia le Pianacce e abbiamo guadato l’Albegna sotto il Pian di Mario, poco sopra i ruderi del vecchio ponte medievale. Mi sa che ci tocca una sosta alle Rocchette alla mescita del Circolo, quello nella via del Borgo. La pettata, con questo caldo, non è facile e lui ha pensato bene di scendere a terra per non affaticarmi e farmi sudare. Il bosco di leccio e di cerro è ombroso e riposante ma ora si cammina tra ciuffi d’erica, roghi e macchie di ginestra, in mezzo ai campi di maggese. Si risale verso il Poderone. Un nugolo di chiocce ci attraversa la strada starnazzando e sbattendo le ali sul terreno. Quelle due vacche, dietro il recinto di filagne, ci guardano indifferenti, scuotono le orecchie, ondeggiano leggermente la pagliolaia e continuano a ruminare.

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Cos’è questo canto lamentoso che viene dalla pozza dell’abbeveratoio? Uhuu-uhuu: cos’è questo flebile ululare? Deve essere quella specie di rospetto col muso rotondo che spunta dalla fanghiglia. Sta ritto sulle zampe davanti e mostra il ventre macchiato di giallo e grigio. Ci guarda con quegli occhioni a forma di cuore ma se ci avviciniamo mi sa che sia pronto a spruzzarci il suo liquido urticante. Ecco la mulattiera di Mezzagne, finalmente in piano, da percorrere spediti  se non fosse per questa tartaruga che se ne sta in mezzo al sentiero con il suo carapace e mi costringe a scartare per evitarla. Si galoppa tra quercioli e siepi di ginepro, fino al bivio della comunale della Crocina, sotto il Poggio Torrione, fino a che non compare il masso di Rocchette.

La sosta alla mescita del Circolo è obbligata quando si passa da queste parti. Il sole sta tramontando sul mare e la via del Borgo è già in ombra. Il padrone mi ha legata alla campanella ma da dove mi trovo riesco a vederlo davanti al bancone con il suo bicchiere di rosso in mano ad ascoltare le chiacchere degli avventori che si attardano sull’uscio. Qualcuno mi passa accanto, mi scruta, guarda i finimenti, mormora qualcosa ma si interrompe nel vedere il mio padrone farglisi incontro. Vorrebbe dargli mano ma lui è stato più veloce. E’ salito su un gradino di graniglia e con un rapido scatto ha inforcato la bardella. Ora ci si può dirigere a Samprugnano. Sono tre chilometri di mezza costa e la strada è abbastanza confortevole: la Conserva, la fonte dell’Acero, la Fonte Vecchia. Ultima sosta per l’abbeveraggio e poi diritti verso la piazza del paese. 

Siamo arrivati. Il padrone è già a terra e mi lega alla campanella accanto alla falegnameria di Corrado. E’ già finita la Processione e ora sta suonando la banda davanti al palagio dei Pellegrini. C’è tanta gente davanti al bar di Giovanni e della Loretta, stanno tutti ad ascoltare la musica, ma questi ragazzini mi stanno importunando. Mi agito e accenno a scalciare così riesco a tenerli a distanza.

Ora anche la musica è finita. Vedo circolare vassoi di bicchieri di vino e biscotti col sale. Vedo il maestro Muscara circondato dai paesani che lo festeggiano.

Ormai so come inizia e come va a finire. Ne ho sentiti di racconti in tutti questi anni: l’osteria delle Donzelle, le partite a scopone, il vino di Vignacci. Ci puoi incontrare personaggi d’ogni sorta, scontrosi e appoiosi, chiaccheroni e taciturni, rispettabili e gatte morte: il mulaio e lo speziale, il fornaio e il medico condotto, il mezzadro e il viaggiatore con le sue pezze di stoffa.

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Dicono che è una piccola locanda, con un grande camino e un banco da mescita, e poi un’altra sala con i tavolini, le sedie e gli schienali di castagno, e i porta zolfanelli alla parete. Deve essere lì che si gioca a carte, che si fuma la pipa, che si tira il sigaro toscano. Sento spesso parlare delle sorelle Delia ed Elvia e del fratello Vezio, come di persone di famiglia: chi attizza il fuoco, chi lava le stoviglie, chi colma i bicchieri.

La piazza si è svuotata e il padrone mi ha spostato alla campanella davanti all’Appalto, così da tenermi sott’occhio. Così da questo angolo della piazza sento le voci degli avventori che se ne stanno accanto alla porta, a cavalcioni di una sedia di legno, a bofonchiare qualche parola.

Lo sanno tutti che Il vino di Vignacci è greve e l’aria fresca della notte stordisce. Me lo immaginavo. Vedo il mio padrone che si alza ma le gambe gli tremano e il gradino davanti alla porta è troppo alto. Qualcuno, come al solito, si presta a sostenerlo e ad accompagnarlo alla campanella dove me ne sto legata. Mi sa difficile il rimetterlo in sella vista la sua statura, il peso e l’altezza dell’inforcatura.  Accorre anche Eraldo che passava di lì e che da mano agli altri due aiutandolo a infilare lo stivale nella staffa.

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Non mi rimane che flettere l’antibraccio, piegare il ginocchio in modo che il nodello si trovi sulla perpendicolare del gomito, quel tanto che l’angolo interno tra pastoia e punta del piede non si chiuda più del necessario.  In questo modo riesco ad abbassare la groppa dal lato giusto e a facilitare l’inforcatura.

Il mio padrone adesso è in sella anche se sbanda e si appoggia come può all’arcione. Provo a muovermi, ma ora rischia di cadere all’indietro. Devo allargare il petto e abbassare il garrese. Forse in questo modo  abbiamo raggiunto un minimo di equilibrio e possiamo marciare con una certa tranquillità.

E’ notte fonda e il tragitto non è breve, anche se abbiamo imboccato la strada per il Paradisone. E poi è notte senza luna e se non ci fossi io che ci vedo molto meglio di lui, voglio vedere come farebbe a ritrovare la strada di casa.

Serena e stellata è la notte. Oltrepassata la chiesina della Madonna e percorso quel tratto cupo e ostile della carrareccia di Fibbianello, tra le Fontanacce e il vecchio Mulino, siamo finalmente in prossimità del podere di S.Anna e delle Querciolaie dove il cielo si rischiara verso il mare. Le luci tremule di Saturnia segnano la via. Ecco il bivio, il sentiero che discende tra il fosso del Paradisone e quello della Romita. La volta celeste appare come un grande planetario che si può toccare con il muso.

Mi soffermo perché sento il padrone vacillare.Sento che barcolla e si appoggia sul collo, così il centro di gravità si sposta sulle zampe anteriori. Devo alzare il garrese e comprimere il petto. Anche se il reggicoda mi stringe sulla punta delle natiche, un lieve bruciore mi accompagna. Saranno le mosche cavalline che mi tormentano tutto il giorno.

Se non fosse per quei bicchieri di troppo ci si potrebbe godere questa lieve brezza salmastra che viene da  ponente. E seguire la trama di stelle che pullulano sulla nostra testa.  Pegaso ci guarda con i quattro astri fiammeggianti, accanto a quei tre punti luminosi del Puledro, il dono che Hermes fece a Castore famoso domatore di cavalli. E quelle strisce di luce, quelle schegge rosse, quei fuochi che si accendono e si spengono. Scie bianche, frecce incandescenti attraversano il pulviscolo stellare. Ma il mio padrone non è Perseo, non è il salvatore di Andromeda. E allora bisogna scendere, con prudenza, con calma, nel buio fosforescente  della campagna. Ci aiutano i piccoli abitanti della notte con la loro segnaletica luminescente: lucciole italiche, bruchi;  i maschi volano lampeggiando, le femmine strisciano a terra o si arrampicano sugli steli d’erba con il loro addome lucigeno.  E al chiarore di queste luminarie il popolo notturno degli insetti, libellule, bombicidi, catocale dei frassini, nottue, sfingi dell’euforbia, teste di morto, e poi falene, pappataci, farfalle, tignole, moscerini, zanzare, allestisce una sarabanda sfrenata. Volteggi, parabole, avvitamenti, picchiate, che fanno invidia ai migliori acrobati. Mi ricordano i racconti di mia madre sul circo equestre. Mi parlava sempre degli uomini volanti che altalenavano sotto il tendone e dei saltinbanchi che disegnavano nell’aria arabeschi luminosi danzando su lunghe pertiche come bianchi trampolieri. Mi parlava anche dei miei fratelli che caracollavano in cerchio con le loro bardature eleganti, oppure si arrestavano improvvisamente e si inginocchiavano davanti ad una giovane donna dalla lunga frusta. O, ancora, si impennavano, felici di poter guardare le ragazze-farfalle che svolazzavano da un punto ad un altro avvinchiate a corde sottili e strisce di seta argentea. Queste libellule ballano con la stessa eleganza. Ma sono balli che durano purtroppo lo spazio di pochi secondi, il tempo che corpi neri, mani alate, membrane gonfie d’aria, roteando velocemente a bassa quota, si fiondano sui danzatori e ne fanno strage.

Sento i ferri degli zoccoli che stridono sugli scogli, sui sassi del sentiero. Cos’è questo fruscio tra gli scopi? Forse mustioli, o moscardini o un riccio che annusa qualche nido di ramarro.

Là, sul poggio, contro il cielo luminescente, una piccola carovana di sagome scure risale il pendio, forse è una cinghialessa  con i suoi figlioli.

Suoni di ogni genere ci fanno compagnia in questa discesa. Cos’ è questo ronzio? Deve essere il succhiacapre, il nottolone,  che se ne sta sulla quercia con quella testa piatta a sbuffare come una civetta. E quel gufetto sul leccio? Sarà l’assiolo con quel chiu assillante. Se non fosse per questo peso morto che debbo riportare a casa starei tutta la notte ad ascoltare questa musica. Le cicale, i grilli, il barbagianni, l’allocco. Un concerto come questo non si ascolta tutte le sere, specialmente se mi rimettono nella stalla. Farei a meno anche della razione di biada. Mi basterebbe brucare questa erbetta tenera lungo la proda. E poi c’è quel cantore solista che mi seduce. Devo stare attenta a non calpestare le spighe e il muschio che ha depositato in mezzo a quel fogliame. Mentre lui, l’usignolo, se ne sta sul melograno a cantare tutto impettito.

Adesso però c’è una discesa più ripida, non posso distrarmi, devo pensare al mio padrone. Sento il suo peso spostarsi in avanti e pendere da questa parte. Forse devo appoggiare lo zoccolo su questo lato e piegare il ginocchio sull’altro in modo da spostare il centro del suo corpo sul piano del mio garrese. Se poi fletto i garretti riesco ad abbassare la groppa e tenerlo in sella. Il sentiero è accidentato e l’oscillazione delle anche non ci aiuta. A mala pena riesce a puntarsi sulle staffe, fortuna che la bardella possiede un arcione pronunciato ed io conosco la strada a memoria, sasso dopo sasso.

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Finalmente siamo al guado dell’Albegna. Se mi cedono i quarti posteriori il mio padrone rischia di cadere all’indietro. E’ necessario che mi butti in avanti, inarchi le spalle, allunghi le zampe anteriori e mi incappucci, giocando tutto sui muscoli del collo. Solo così posso accorciare il tronco, e recuperare forza nei glutei e nei garretti. Certo, bisogna che lui non si sbilanci troppo in avanti anche se l’arcione sarà in grado di sostenerlo. E poi si tratta di pochi attimi. Non è la prima volta che esco dal guado con sventatezza, caracollando spavaldamente sugli arti, drizzando la coda, dilatando le froge e stronfiando.

Costeggio finalmente il fiume. Il mio padrone non sa che io ci vedo bene di notte, anche se le cose mi appaiono in bianco e nero. Ho sempre sentito dire che le mie pupille sono più efficaci al crepuscolo e al buio. Un mio simile, che veniva dal deserto d’Arabia, diceva sempre “il leone può vedere in una notte oscura un pelo bianco galleggiare sul latte, ma il cavallo vede un pelo nero sulla pece”. E poi se tengo la testa distesa verso il basso riesco a mettere a fuoco contemporaneamente cose vicine e cose lontane. Ora, ad esempio, c’è una raganella che salta dai sassi e si tuffa in una pozza. Il suo dorso brilla nell’acqua scura, il ventre biancastro, le due bolle degli occhi intersecate da quel lungo taglio nero. E l’altro, il maschio, se ne sta appollaiato su uno scoglio con quelle zampe a ventosa, mentre gonfia il sacco vocale e canta a squarciagola.

Laggiù poi, ai bordi di una pozzanghera, ci sono dei granchietti d’acqua dolce che si litigano per conquistare i favori della femminuccia. Purtroppo anche il mio olfatto è speciale; purtroppo, perché questa mustela che mi segue da vicino non si può dire certamente una bella compagnia.

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Possiamo risalire tranquillamente il poggio, l’aria è più fresca, le stelle brillano più del solito, sento che il mio padrone ha ripreso vigore, lo sento dalle redini, dall’appoggio sul collo, dall’inforcatura. Mi dà alla voce, avverto l’odore di casa. Attraversiamo il querceto, la lampada nella loggia è ancora accesa, ci fermiamo davanti alla campanella.

Sono finalmente libera, dal morso, dalla sella, dal sottosella, dal pettorale e dal reggicoda, sono finalmente nella stalla, sento le trecce di paglia che mi solleticano il dorso e la groppa, le spalle e il petto. Vedo nella mangiatoia un ricco pastone di crusca e di biada, il padrone l’ha sistemato tra due forconi di fieno e l’abbeveratoio. Che c’è di meglio nella vita ?

 

EPILOGO

Non sappiamo quali sia stata la sorte ultima di Stella.

Non sappiamo se si è spenta dolcemente

sul suo morbido letto di paglia

o se sia stata caricata su un autocarro

per essere spedita in uno di quei tristi luoghi

che si chiamano macelli.

Non lo sappiamo e non vogliamo saperlo.

 

Ma sappiamo, e lo sappiamo di per certo,

che nella sua breve esistenza concessale

quell’idea di felicità che tutti noi possediamo

ha nutrito anche lei in qualche momento fugace:

un galoppo sfrenato sui prati di primavera,

o nella neve soffice e fresca,

uno “spulleramento” nella sabbia del recinto,

una sgroppata improvvisa , una coppiola verso il cielo.

Ma anche l’inatteso arrivo di uno stallone

e,  magari, quella maternità tanto desiderata.

 

Forse un paradiso attende anche loro

se è vero quel che nelle veglie si racconta

Quando i cavalli al cielo erti levorsi”.

 

Testi e disegni: Massimo Gennari

 

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