Milano – L’Enciclica di papa Francesco “Fratelli tutti” è stata firmata ad Assisi il 3 ottobre scorso e fa riferimento al Documento sulla Fratellanza Umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato ad Abu Dhabi nel 2019 dal Papa di Roma e dal Grande Imam della Moschea di Al-Ahzar de Il Cairo.
Ricordiamo anche che la Lettera ha chiaramente come ispiratore quel Francesco d’Assisi che, oltre a essere campione della fratellanza universale, fu controcorrente anche si trattò di mandare i frati in mezzo ai saraceni, e – rifuggendo dal violento proselitismo dell’epoca – raccomandò loro di “Predicare sempre il Vangelo, e se necessario anche con le parole”. Chiaro, no?
E’ importante allora capire chi è e che idea di Chiesa ha il gesuita Bergoglio.
La prima immagine ce la regalano gli appunti che l’allora arcivescovo di Buenos Aires preparò in vista della Congregazione Generale del 9 marzo 2013, che precedette il conclave seguito all’atto di rinuncia di papa Ratzinger. Egli intendeva spiegare ai confratelli porporati l’identikit che proponeva per il nuovo Vescovo di Roma.
Uno dei punti recitava: la Chiesa va aiutata a uscire da se stessa verso le periferie, non solo geografiche, ma esistenziali. E citava un famosissimo brano del libro dell’Apocalisse, l’ultimo della Bibbia cristiana, là dove si dice “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui ed egli con me” (Ap. 3, 20).
Bergoglio spiegò che di solito si interpreta il brano con Gesù che sta fuori dalla porta e bussa per entrare, però – aggiunse – “a volte penso che Gesù bussi da dentro perché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Gesù Cristo dentro di sé e non lo lascia uscire”.
Quattro giorni dopo il cardinale Jorge Mario Bergoglio venuto “dalla fine del mondo”, fu eletto papa, e prese il nome di Francesco. Un gesuita francescano. Inaudito.
Nel settembre successivo, in una intervista fece un passo avanti, utilizzando l’espressione “ospedale da campo” per definire l’azione di una Chiesa che predica la buona notizia del Regno, in cammino nella storia, in compagnia di uomini e donne, con le loro gioie e soprattutto i loro dolori.
Non si trattava di evocare scontri apocalittici modello Armageddon, ma di mettere al centro le battaglie che ciascuno di noi vive ogni giorno, le escoriazioni che ci procurano le giornate difficili, quando il cuore si spezza o ci prende lo sconforto, insomma le ferite della vita di ciascuno di noi…
Aggiungo una breve citazione da un messaggio inviato nei mesi scorsi da papa Bergoglio all’assemblea delle Opere Missionarie, nel quale – quasi rispondendo ai critici che lo accusano di privilegiare una idea “movimentista” della Chiesa rispetto all’aspetto istituzionale – spiegava che ovviamente il Papa non nega quell’aspetto; deve però obbedire al soffio dello Spirito (Ruach, in ebraico), il quale “provoca disordine con i carismi” e “in quel disordine crea armonia”. E nel chiedere agli uomini di Chiesa l’abbandono della autoreferenzialità di cui sono spesso ammalati, utilizzò una immagine forte: “Rompete tutti gli specchi di casa!”. Insomma, la Chiesa non è il prodotto delle nostre analisi, dei nostri programmi o decisioni. Lo Spirito fa sbocciare germogli anche nei deserti.
Tralascerò i discorsi sul rapporto fra riforma e tradizione, fra Concilio di Trento e Vaticano II, le novità nella lotta alla piaga della pedofilia, il ridisegno delle finanze vaticane, l’ecumenismo e i rapporti interreligiosi, gli appelli addolorati per denunciare l’economia dello scarto, per non dimenticare gli affamati, i migranti… Tutti capitoli di un progetto che qualcuno ha definito – in maniera geniale, direi, con l’espressione “una Chiesa altrimenti”.
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Tornando alla enciclica “Fratelli tutti”, c’è da sottolineare che icona fondamentale è la parabola del Buon Samaritano, nella sua valenza universale. Quella del soccorso al ferito abbandonato lungo la strada, infatti, è una “storia che si ripete”, e la fraternità è una opzione di fondo a cui siamo chiamati ogni giorno.
E’ il passaggio dalla risposta alla domanda “chi è il prossimo che devo amare?” alla scoperta che è richiesto a ciascuno di noi di “farsi prossimo” del fragile e del debole, di chi è solo e di chi è scartato…
La struttura della lettera enciclica possiamo solo accennare:
- Una presa di coscienza della urgenza della fraternità nella realtà in cui siamo chiamati a vivere;
- Una analisi che ci permetta di riconoscere gli ostacoli che ci provocano inciampo;
- L’identificazione di piste concrete lungo le quali realizzare la fratellanza e la amicizia sociale.
L’urgenza è data dal paradosso della nostra epoca, epoca di globalizzazione dei problemi e dei bisogni, delle tecniche e delle comunicazioni, ma anche tempo di frammentazione e ipertrofia dell’”io”. Il mondo è unificato sotto tanti aspetti, ma le nazioni sono divise, fra loro e dentro di loro, da rivendicazioni continue; e siamo divisi anche noi come singole persone; magari ci sentiamo interdipendenti e vicini anche quando siamo da remoto, ma facciamo fatica a dirci e a essere fratelli e sorelle.
Viene però l’ora della verità, quando siamo chiamati a chinarci sulle ferite degli altri, quando dobbiamo decidere se e come caricarci gli uni sulle spalle degli altri. Dovremmo essere “fratelli” e invece spesso siamo solo “soci” di interesse. Papa Francesco applica queste categorie alla questione delle migrazioni, della accoglienza dello straniero, e alla tensione fra locale e universale, fra popolarismo e populismo, il tema della (o delle) identità. “Un nuovo inizio” è quello che serve. L’ideologia neoliberale non propone nulla di nuovo, ma ripropone schemi vecchi, ormai logori…
Il tentativo di papa Francesco è di dare un’anima al binomio libertà e uguaglianza, che ha arricchito, ma anche insanguinato, gli ultimi secoli, vuole riportare in primo piano quella “fraternità” che l’Illuminismo sembra aver dimenticato. Quasi una mano tesa alla grande tradizione dell’Occidente laico.
Nonostante i grandi e innegabili progressi, sappiamo che la violenza non è scomparsa, nei rapporti fra Stati, ma anche nei rapporti interpersonali, nei rapporti di genere. La soluzione non può essere la forza o la vendetta. E allora la proposta di Bergoglio insiste su due pilastri strettamente legati: il perdono e la memoria. Ma bisogna essere chiari.
La riconciliazione va perseguita, non però a buon mercato, non a ogni costo, se nega la verità. Il perdono è personale, non una assoluzione generale, e bisogna evitare l’oblìo di eventi tragici come la Shoà o Hiroshima e Nagasaki. In questa parte l’enciclica tocca anche il tema della guerra, che è definita “mai giustificata” (superando anche gli interventi umanitari perseguiti da Wojtyla, che provocarono ugualmente morti e sofferenze) e quello della pena di morte (ancora prevista dal Codice canonico e cancellata ora con un tratto di penna).
Come ricorda papa Francesco a conclusione della Enciclica:
In questo tempo che ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere tra tutti una aspirazione mondiale alla fraternità…
Nessuno può affrontare la vita in modo isolato…
E’ importante sognare insieme. Da soli di rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme…
Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce.
Tutti fratelli!