Firenze – Come un breve, intenso frammento di “Spoon River” nel cuore di Firenze. Tre antiche lapidi poste una accanto all’altra, nel Chiostro dei Canonici della basilica di San Lorenzo, al centro del loggiato che conduce all’ingresso della Biblioteca Medicea Laurenziana.
Tre pietre sepolcrali le cui iscrizioni, come gli epitaffi della celebre antologia di Edgar Lee Masters, si incontrano, si intrecciano, si completano, lasciando che siano i protagonisti dei fatti a narrare di sé in prima persona, e permettendo alla curiosità del visitatore di ricostruire i contorni di vicende molto lontane nel tempo, che uno stile poetico insieme magniloquente e intimo, elegiaco e solenne, difende dall’oblio e consegna alla posterità.
Tristi accadimenti che, oggi come allora, affidano la propria memoria all’ombra degli eleganti portici disegnati da Brunelleschi; una trama d’amore e morte mestamente dipanatasi in un breve spazio di giorni, tra marzo e maggio 1835: il funesto periodo in cui si consuma la tragedia familiare dei Casanova, che prima perdono Elisabetta Corsini, moglie di Iacopo Casanova, strappata repentinamente alla vita assieme al piccolo che portava in grembo; poi lo stesso Iacopo; infine la loro giovanissima figlia Antonietta, di appena cinque anni.
Iacopo Casanova, Elisabetta Corsini. Le prime vittime di quella che sembra una maledizione. Ciò che oggi si sa di loro non va molto al di là delle notizie riportate dalle diciture scolpite nel marmo. Sono le date a farci da guida. La prima epigrafe funeraria reca quella del 12 febbraio 1835, il giorno in cui, appena ventisettenne (era nata il 14 marzo 1808), scompare Elisabetta, una delle quattro figlie del principe Tommaso Corsini e della baronessa Antonia Waldstaetten, dama della nobiltà austriaca.
Vi si legge il lamento di Casanova, che si rivolge direttamente “all’amata consorte”: “Tu mi hai precorso per quella via / Nella quale mi credea precederti / Tu delizia e vanto de’ tuoi / Per ingegno maggiore del sesso / Per angelica semplicità di costumi / Per cristiane virtù nota a tutti a te sola ignota / Tu scorta tu lume e speranza / Alla crescente famiglia / Del cui felice avvenire in te m’affidava/ In mezzo alla domestica pace / Prossima a rallegrarmi di nuova prole / D’improvviso e senza riparo mi fosti rapita / E raccolsi l’ultimo tuo sospiro / Ed ahi vidi mietute in un colpo due care vite / Or qui teco è sepolta / Di me l’ottima parte / E finché non mi sia dato raggiungerti / Sol nei teneri figli che mi hai lasciati / Spero conforto”.
Ma la speranza e il conforto offerti dai teneri figli non bastarono: nel cuore del vedovo ebbe la meglio la cupa marea del dispiacere, che tutto sopraffece. Siamo alla seconda lapide: 9 maggio 1835. L’alto eloquio dei tutori testamentari annuncia la dipartita del “Gen. Cav. Comm. Iacopo, figlio d’Agapito Casanova, patrizio pisano, nato a Peccioli il 10 di agosto del 1774”, il quale, “Con esimia lode di valore e di fedeltà / Percorsi tutti i gradi della milizia / Resse poi con tanto senno le truppe toscane / Che la dolcezza non gli scemò l’obbedienza / Né la severità l’amore / E temperando con la bontà dell’animo / La gravità militare / Fu insieme illustre esempio / Di civili e cristiane virtù / Finché nel colmo degli onori / Fra le gioje e le speranze domestiche / Quanto ad uomo è concesso felicissimo / Rapitagli da subita morte la moglie diletta / Precipitò in un abisso di duolo / Sì che presto infermato finì egli pure di vivere / E qui secondo sua brama / Ebbe con l’egregia donna comune la tomba /Per gli orfani tenerelli Antonietta e Averano / Sbigottiti dall’iterato lutto / I tutori testamentarj /Posero questo marmo”.
Era destino che lo sbigottimento ancora non cessasse, come una terza lapide avrebbe annunciato di lì a poco. Tredici giorni: tanti ne trascorsero dal decesso di Iacopo a quello di Antonietta. Che parla in prima persona dai lacrimevoli versi del proprio epitaffio: “Fui Antonietta Casanova / Dolce primizia e per cinque anni diletta cura / D’ottimi genitori / Che l’un dopo l’altro vidi in brev’ora rapirmi / Ond’io egra e smarrita più e più dì li chiamai / Finché apparsami dal cielo la madre / Le volai disiosa appresso / Il 22 maggio 1835 / Per ricongiungermi a entrambi / Tu non dolerti mio caro Averano / Se di nostra casa testè sì florida e lieta / Solo costaggiù sei rimaso / A serbar viva l’immagine delle virtù de’ nostri / O vagheggiatori di terrene felicità / Meditate su questo avello”.
Col memento mori della povera piccina si chiude il compassionevole racconto delle iscrizioni funebri dei Casanova, cognome avventuroso, romanzesco, che in quegli anni, per merito di Giacomo, principe dei libertini, e della sua rocambolesca biografia, da lui affidata ad opere fortunate, dappertutto si associava ad amori e conquiste galanti e leggendarie fughe, non certo a gramaglie e veglie funebri. Dappertutto, ma non qui. Non nel Chiostro dei Canonici. Non lungo i portici plasmati dall’ingegno di Brunelleschi, le cui pietre proteggono il riposo di spiriti preclari, come quello del matematico e fisico Evangelista Torricelli; e dove, nel 1835, nella città dell’Arno d’argento, circa ottant’anni prima dell’uscita del capolavoro di Edgar Lee Master, un’anticipazione miniaturizzata dell’intuizione narrativa dell’“Antologia di Spoon River” fiorì, involontariamente, attorno al crepuscolo di una sventurata famiglia e al tenace desiderio, da parte dei cari congiunti dei Casanova, di tenere accesa, attraverso l’eloquenza poetica, quella celeste corrispondenza d’amorosi sensi che Ugo Foscolo, spentosi otto anni prima a Londra, immortalò nei “Sepolcri”.
Nessuna ulteriore notizia di Averano, l’unico superstite, l’ultimo testimone delle “gioje e speranze domestiche” che si respiravano nella dimora dei Casanova nei bei dì felici, quando tutti – Elisabetta, ritratto della virtù muliebre; il generale Iacopo, a cui una brillante carriera militare permise d’impalmare una Corsini; e Antonietta, la “dolce primizia” volata disiosa in cielo – ancora godevano di ottima salute. Chissà se almeno Averano arrivò non solo a vagheggiare ma ad afferrare qualche terrena felicità – ampiamente meritata – e magari a godersi una serena vecchiaia. Di certo, l’assenza di una quarta lapide legata a quel cognome tanto bersagliato dal fato lascia ben sperare.