Livorno –
(…) Enea che in spalla
un passato che crolla
tenta invano
di porre in salvo
e al rullo d’un tamburo
ch’è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi ritto (…)
(Giorgio Caproni, Il passaggio d’Enea)
Nella piazza Bandiera, a Genova, già durante la guerra, negli anni ‘40 campeggiava una statua attribuita all’artista barocco Francesco Baratta, di dimensioni relativamente piccole, poggiata sopra un fontanile, intorno a cui si raccoglieva la vita popolare del quartiere. Essa raffigurava Enea, l’eroe troiano che, in fuga dalla città in fiamme, porta sulle spalle l’anziano padre Anchise e tiene per mano il figlio Ascanio.
E’ a questa statua, collocata nella piazza «più bombardata di Genova», che Giorgio Caproni, poeta livornese, ma come egli stesso amava definirsi, «genovese di adozione», dedicherà una raccolta di versi, Il passaggio d’Enea (pubblicato in volume nel 1956), ravvisando nella figura dell’eroe virgiliano, l’uomo piegato e sconfitto, sopravvissuto alla guerra e forse poi chissà a quali altri disastri interiori ed esterni.
Osservando il gruppo scultoreo, ciò che prevale è l’innervamento di muscoli e arti, l’intreccio dei corpi. Tutta una tensione, la disperazione di una umanità nel punto/ di estrema solitudine; non un eroe, ma un uomo, «l’esule perenne», pronto a partire frettolosamente, caricandosi sulle spalle un passato che crolla e tenendo per mano il figlioletto come un futuro ancora di là da venire; nel mezzo lui, che sa di poter contare solo su se stesso. Solo. Mentre attende una nave che lo porti lontano, non si sa dove.
All’occhio sensibile e attento del poeta non sfugge la marginalità della piazza e a sua volta la collocazione dimessa di quella scultura; è proprio in quello scenario appartato, che si sostanzia per Giorgio Caproni un ridimensionamento in chiave antiretorica della figura di Enea.
Anzi, quella figura in fuga, «un vedovo» teneva a precisare il poeta, tra le macerie di una piazza disadorna e polverosa, ci stava proprio bene, quasi ad ammonirci che, dopo la guerra, l’uomo non sarebbe più stato lo stesso. E neanche più avanti, l’umanità sarebbe stata uguale. Mentre la figura di Enea, in una dinamica di costante, quasi innata e proliferante trasfigurazione, continuerà a impersonare di volta in volta, l’esule dei nostri tempi, disposto ad affrontare un viaggio denso di pericoli, oppure un figlio che vorrebbe poter soccorrere il suo vecchio padre, emblema attuale di un’intera generazione scomparsa con il diffondersi di un’aggressiva pandemia, continuando ancora a parlarci, dalla lontananza sempre rinnovata della sua classicità.
La poesia di Giorgio Caproni trae spunto di frequente dalle immagini e dalle opere del mondo classico come a voler segnare un percorso talvolta in sottotraccia che contraddistingue la sua scrittura, fino alle sue ultime prove. A tal proposito si veda Caproni Il mio Enea (a cura di Filomena Giannotti, prefazione di Alessandro Fo, postfazione di Alessandro Bettini, Garzanti) che ricostruisce, attraverso la raccolta puntuale dei numerosi interventi del poeta intorno alla figura dell’eroe virgiliano (cui si accompagna un accurato apparato bio-bibliografico), quello che potrebbe definirsi un vero e proprio nocciolo ispirativo, che in modo più o meno evidente ha continuato ad agire nella produzione di Giorgio Caproni, andando oltre la stessa raccolta che fa esplicitamente richiamo a questo personaggio. Ciò che interessa al poeta è l’uomo. Solo. Quello che più avanti nel suo percorso compositivo, rifletterà sul proprio destino, certificando direi cristianamente la stessa assenza di Dio, nel potere erosivo della parola.
Dunque, una piazza tra le meno conosciute di Genova aveva colpito il poeta, soprattutto quell’essere ai margini, quel nascondersi quasi dalla Storia evidente di altri luoghi; proprio quella solitudine polverosa e disadorna aveva commosso Caproni, che trova inaspettatamente un corrispettivo nella condizione di un altro personaggio, il filosofo Nietzsche (come testimonia lo stesso autore), chiamato dalla gente del posto «il piccolo santo», che pure aveva abitato in quel quartiere.
E così, il poeta mingherlino, «magro come un cerino» come Giorgio Caproni diceva di se stesso, compie il gesto a sua volta di caricarselo sulle spalle, il suo Enea, senza retorica, nell’asciuttezza e nella puntualità dei suoi versi, come simbolo del trapasso inevitabile di una condizione universale che proprio nelle sue componenti più marginali e più fragili ha ancora molto da dirci.
E mi stupisce, in questo senso, una foto che l’amico e poeta Riccardo Mazzamuto ha messo in evidenza con chiaro disappunto, all’interno di un social (e lo ringrazio per questo) che mostra, a Livorno, una piazzetta, o meglio uno slargo, dove campeggia una centralina elettrica, circondata da evidenti segni di abbandono; ecco, in un luogo del genere, su un muro in parte coperto da un rampicante, non può non colpire che compaia una targa dedicata a Giorgio Caproni, uno dei più importanti poeti del Novecento che ha dato a quella città l’opportunità di celebrarlo in occasione del centenario della nascita, nel 2012, con una serie di iniziative dedicate a lui e alla sua opera.
Mi stupisce e in parte mi commuove che il nome di Caproni se ne stia relegato in un luogo dimesso, in parte degradato. Da un lato vorrei quasi proteggerlo, lui, il mio Caproni, il poeta, maestro elementare, musicista (violinista), traduttore e critico letterario (ci ha tra l’altro lasciato una pubblicazione corposa delle sue Prose critiche), che fu il primo recensore de La barca di un giovane Mario Luzi; amico fraterno di un altro importante toscano, Carlo Betocchi; così riservato, al punto ad esempio da declinare l’invito a pronunciare l’orazione funebre in onore del suo caro amico Pier Paolo Pasolini, dopo il ritrovamento del corpo straziato, così come recita in un suo breve testo, spiegando di non voler prendere luce, seppure per una nobile ragione, da una circostanza così drammatica:
«Caro PierPaolo.
Il bene che ci volevamo
– lo sai – era puro.
E puro è il mio dolore.
Non voglio pubblicizzarlo.
Non voglio, per farmi bello,
fregiarmi della tua morte
come d’un fiore all’occhiello»
Fa male, però, che tale forma di innegabile trascuratezza, stemperata soltanto dalla connaturata gentilezza del rampicante che copre in parte il nome del poeta, non sia certamente il frutto di una intenzionale volontà di emarginare il poeta che ha fatto vivere tutta una Livorno popolare nei versi de Il Seme del piangere, dedicati alla svelta e commovente figura della madre, Annina. Quanto, forse, il ritenere che ci sia sempre qualche cosa di più urgente da fare, ignorando o dimenticando figure che hanno dato lustro a un luogo, anzi, lo hanno illuminato, che lo hanno segnato con il loro passaggio e con la loro scrittura, oltre che con il loro appartato silenzio, per sempre e in modo delicato e preciso.
Rosalba de Filippis