“Grammatica e ortografia sono reazionarie” (don Milani)
Da tempo chi vi scrive si pone una domanda che, come tante di ordine filosofico, resta (per certi versi è un bene) senza risposta. In che rapporto stanno futuro e sviluppo umano? Ovvero, le “magnifiche sorti e progressive” sono sempre tali, ed a qualsiasi latitudine, o è lecito ipotizzare anche il contrario? Quello che, dai secoli dei Lumi ad oggi, è diventata ad esempio una correlazione tabù. Cioè che non tutto il futuro sia declinabile sotto il giudizio del miglioramento o del progresso? Anche solo ventilarlo, durante una lezione a giovani nerd (che potrebbero tranquillamente scambiarsi di ruolo col docente), ti danno del robivecchi nella migliore delle ipotesi.
Certo, l’impervio rapporto dipende, nella soluzione a favore dell’uno o dell’altro, dai parametri culturali con cui si soppesano appunto gli elementi in campo. Ed è innegabile che tecnologia e scienze mediche (che hanno allungato a dismisura l’orologio biologico e le comodità umane) lascerebbero supporre che, sì insomma, non ci sarebbe alcun dubbio: guardarsi indietro nel tentativo di riattingere a modelli perduti, non solo sia inutile esercizio da retori decotti ma anche aspirazione da suicida antropologico.
Eppure…Eppure esistono settori, a latere dell’immediata corporeità, quelli che lambiscono le sfere dell’espressività ad esempio, che meriterebbero un dibattito maggiore. O meglio, meriterebbero un dibattito punto e basta. Prendiamo la lingua, che sta subendo repentine trasformazioni in quest’epoca in cui tutto è filtrato dai social network, dalle informazioni quotidiane alla ricerca dei sistemi di pensiero cui conformarsi o prendere consapevolezza di farne (inconsciamente fino ad un clic prima) inevitabilmente parte.
Nel corso della storia, le grandi trasformazioni culturali-mediatiche hanno sempre portato con sé, o meglio prodotto in forma di anticorpo per non soccomberne ed assorbirne i cambiamenti in modo graduale e senza traumi eccessivi, la loro controparte. Sia detto senza giudizio di merito. Per tornare ai secoli del positivismo e delle scienze ad esempio (dalla metà del ‘600 alla fine dell’800 circa), mentre traballavano le verità presuntamente assolute indotte dalle religioni più o meno rivelate, risulta quantomeno singolare il contemporaneo sorgere dello spiritismo o la diffusione di quella fede laica (anche in chiave patriottico-risorgimentale) che è la massoneria. Per arrivare invece a tempi più recenti, pensiamo alla nascita dell’amore archeologico (con la sua rincorsa alla preservazione dell’antico in modo direttamente proporzionale alla datazione dei reperti) proprio nel momento in cui il trapassato remoto rischiava di far scomparire per sempre sotto i colpi del tempo e dell’incuria dell’uomo, le grandi civiltà del passato.
In quest’epoca di facebookrazia, i cui orizzonti oltre i quali potrebbe portarci l’era digitale (nella comunicazione e nella produzione) si intravvedono appena, rapidità e contrazioni linguistiche stanno fornendo materiale utile agli studioso per rivedere di continuo i capitoli nei vocabolari dedicati ai neologismi. L0 smodato uso di emoticon ricorda ad esempio allo scrivente un clamoroso ritorno alle modalità sumeriche ed alla scrittura cuneiforme quando i segni grafici ancora non corrispondevano ai sistemi di parola in uso.
La controparte comportamentale che l’iperconnettività (col suo incredibile e poco approfondito portato di schizofrenia comunicativo) sembra aver prodotto nella dimensione di vita fisica, in modo speciale nel linguaggio politico in uso, è l’adeguamento acritico al terminologicamente corretto. Ovvero a quella rinuncia aprioristica alla contestualizzazione del problema ed al suo inquadramento storico. Al corretto rapporto tra assioma generale e la sua declinazione individuale. Alla capacità di eccezione e distinguo pur all’interno del medesimo e magari affrontato sotto la stessa ottica ma da punti di vista differenti.
Da una parte dunque l’invasione di modalità ipertestuali sempre più primitive (nel senso di “regressive”), dall’altra però la divisione sempre più marcata e manichea della complessità dialettica. Facce della stessa medaglia, prodotto e controprodotto di un’era che ci investe e che nessuno guida perché si deflette volentieri dal tentativo della sua comprensione. O forse la cognizione stessa dei processi non rappresenta più un valore in sé.
Così, mentre da una parte l’universo “webeta” si divide in smodati urlatori di fesserie incontrollate e/o macro o micro gruppi dai meccanismi inclusivi e consolatori di auto-aiuto (del tutto simili alle modalità settarie), dall’altra assistiamo ai compatti minuetti schizzinosi delle classe dirigenti impegnate nelle argomentazioni ipoteticamente risolutive dei problemi. Ed il solco tra le due specie comunicative si approfondisce giorno dopo giorno. Fino ad arrivare ad esprimersi in gerghi del tutto differenti.
Il linguaggio è infatti anche e soprattutto un discorso (il sostantivo) di democrazia (noi siamo le nostre parole, dice e scrive Louise Banks, la linguista del film “Arrival”, 2016) ed il ricominciare a chiamare le cose per e col loro nome, sarebbe già un incredibile salto in avanti.
In questa settimana in cui la cristianità celebra il triduo pasquale, un sacerdote post-post moderno di un futuribile culto neolinguista, potrebbe suggerire ai detentori della cosa pubblica una penitenza salutare, una sorta di Verba Crucis. L’astensione per tre mesi, con deroga se non per fini strettamente ed etimologicamente necessari, degli aggettivi: populista, demagogo e qualunquista.