È ricorrente, quando si tratta di celebrazioni che chiamano in causa la memoria, parlare di “strumentalizzazione”. È tipico nel tempo in cui viviamo che l’uomo voglia gestirsi la vita da solo senza tenere conto della propria origine e accade che volendo controllare allo stesso modo la memoria, inevitabilmente sbatta contro la propria tragicità. Alcune vicende si vogliono dimenticare o si tagliano dai libri di storia, mentre ad ogni costo se ne difendono altre. La realtà ci dimostra però che non si è in grado di gestire l’oblio, perché alcuni eventi dei quali ci vogliamo disfare, ritornano.
Poi c’è la nostalgia che cerca di mantenere vivo un fatto a tutti i costi, in contrasto con la storia e con la cultura. È un’operazione di selezione e di isolamento di un accadimento staccato da ogni contesto e dall’insieme. Nostalgia e oblio sono le due facce di una stessa medaglia. Oggi assistiamo all’uso di termini nati in un preciso momento storico per definire le persone o gli antagonisti politici, dimenticando che viviamo in un contesto culturale completamente cambiato. Ma oggi è utile vista la ricorrenza del 10 febbraio, riflettere sul perché dall’istituzione della Giornata del Ricordo, con una legge del 30 marzo 2004, dopo anni di indifferenza, ancora si assiste allo scontro ideologico. A chi si deve imputare la colpa di decenni di silenzio? Perché la storiografia ha atteso così tanto prima di rendere giustizia a tanti uomini e donne del nostro paese che sono stati deportati dalle loro case o barbaramente gettati nelle viscere della terra? Ora ci si meraviglia che nel vuoto lasciato per anni dal riconoscimento dei fatti storici la politica si sia inserita e ne abbia fatto un uso strumentale. La nostra città, che vanta primati in alcuni settori, non ha mai primeggiato nel colmare le tanto evocate zone d’ombra della storia.
Ricordo che i primi eventi legati alla celebrazione del 10 febbraio in città risalgono al 2008 e furono una mostra fotografica sulle vicende del popolo istriano-fiumano-dalmata nei Chiostri di San Domenico che non rendeva per niente onore alla tragedia di cui si doveva fare memoria (c’erano foto cadute sul pavimento, mancavano le didascalie, si percepiva la poca cura nell’allestimento) e un convegno promosso dalle istituzioni reggiane senza tanto clamore in una saletta di Palazzo Magnani, la sala riunioni. Il tema era “Foibe: per non dimenticare”, ma alla fine il messaggio era che per il bene di tutti era meglio dimenticare o perlomeno non parlarne troppo. Protagonisti del confronto infuocato erano il giornalista Marcello Veneziani e la ricercatrice Nevenka Troha, coordinatore Corrado Guerra. Al termine del convegno il dibattito si era così acceso che qualcuno ha esordito che forse era meglio non parlare del tema perché divisivo, qualcun’ altro che c’erano giustificazioni a tanta violenza date dal contesto storico… Il dibattito prese la piega dei temi altrettanto tragici che colpirono la nostra terra nel periodo resistenziale e nel dopoguerra.
A tale riguardo propongo la lettura a mio parere interessante di una ricerca di Luca Pignataro pubblicata su Nuova Storia Contemporanea nell’ottobre del 2006- Il paese delle foibe nel triangolo della morte- ( anche sul sito http://digilander.libero.it/le foibe/), che prende spunto dal coraggio dei giovani giornalisti de La Nuova Penna ( pubblicazione che tutti i reggiani dovrebbero conoscere). Furono anticipatori di ciò che la storiografia e il giornalismo hanno ignorato per decenni. Oggi abbiamo la conferma che la storia si ripropone a dispetto delle dimenticanze, delle nostalgie e delle strumentalizzazioni che la fragilità dell’uomo porta con sé.