Sulla sconfitta del centrosinistra alle elezioni del 25 settembre si è creata in pochi giorni una letteratura sconfinata con posizioni talvolta estreme. A queste bisogna ascrivere sia autorevoli esponenti della politica e del giornalismo che propongono un palingenetico scioglimento del Pd per consentire la costruzione di una nuova sinistra, sia coloro che puntano solo a liberare uno spazio politico da occupare. Posto che la palingenesi in politica è un’illusione ottica, perché esistono solo buone idee e giuste strategie, una tale proposta suona come una sfida e un’offesa ai militanti, agli iscritti e agli elettori che lo hanno scelto facendone il secondo partito con il 19%. Distruggere è molto più facile che costruire e alla fine di un percorso del genere troveremmo solo macerie.
Il PD non ha vinto innanzitutto perché, data questa legge elettorale, senza alleanze la vittoria era difficile, a meno di un exploit del Pd, che non c’è stato. Ed è su questo che va fatta una riflessione approfondita: perché il PD fatica ad espandersi, perché non solo non ha recuperato nell’astensionismo di precedenti elezioni, ma ne è stato vittima in una nuova parte dell’elettorato sfiduciato e rassegnato. È stata fatta una campagna elettorale da sconfitti e questo ha indotto alcuni a scegliere altre formazioni o ad astenersi.
È stato penalizzato – paradossalmente – anche dalla sua natura responsabile, la responsabilità nel farsi carico dei problemi dell’emergenza economica e sociale (come la pandemia) che lo ha convinto alla partecipazione ai governi di unità nazionale, prima con Monti e poi con Draghi. È stato percepito proprio per questo come l’azionista maggioritario, nonostante che disponesse solo del 12% in Parlamento. È stato al governo senza avere un reale potere di governo, diventando facile bersaglio di insoddisfazioni, disagi, delusioni. Tutto questo lo ha reso poco credibile agli occhi degli elettori anche quando ha inserito nel programma proposte giuste, ad esempio, a favore degli insegnanti o dei giovani. Nel processo di ricostruzione al primo posto io metterei proprio il recupero di credibilità e di coerenza.
Ma, al di là delle ragioni contingenti della non espansione, esiste un problema strutturale che occorre aggredire. Non basta cambiare il segretario o il nome; sarebbe solo una scorciatoia rispetto a problemi più profondi che riguardano lo stesso modo di essere del PD: una forza incompiuta, che è stata bloccata nella sua evoluzione rispetto al progetto originario. Un esempio su tutti: il pluralismo – che è un valore fondativo importante – è diventato in pochi anni difesa e gestione delle posizioni di potere personale e di fedelissimi attraverso correnti che niente hanno a che fare col pluralismo ideale e col dibattito politico-culturale. È un pluralismo mal inteso, per parafrasare Tocqueville. D’altronde, aver cambiato 10 segretari in 15 anni (il nuovo sarà l’11o) è il segnale di un baco che bisogna eliminare come precondizione per la rinascita. Il PD non è un partito personale, leaderistico, e questo è un bene. Ma le correnti lo hanno fatto diventare un partito oligarchico. Nel processo ri-costituente deve essere trovata la forma che sappia tenere insieme pluralismo e unità.
Il Partito è apparso poco attrattivo perché col tempo la sua fisionomia politica e sociale si è persa, appannata: non si sa più chi vuole rappresentare e su cosa. Questo mi porta a dire che una rigenerazione andasse promossa a prescindere, anche nel caso, miracoloso, di una vittoria. Ora è sotto gli occhi di tutti la necessità di ricostruire una fisionomia riconoscibile, che renda il Partito democratico più attrattivo per coloro i cui interessi intende rappresentare: i vari mondi del lavoro e dei nuovi lavori, i più svantaggiati, i giovani, le donne.
Il precariato è una piaga da superare definitivamente. Le questioni sono quelle sociali(dalle disuguaglianze accresciute alle nuove difficoltà economiche anche per la classe media, come dimostra il rincaro delle bollette), ambientali(si è parlato poco di ambiente), femminili (rappresentanza e diritti). È chiaro che c’è un problema sulla questione donne e che lo snodo vero è la possibilità/capacità reale di esercitare l’autonomia.
Dunque, alla domanda “come e su che cosa ricostruire?” risponderei: riflettendo sulla funzione di una sinistra riformatrice e progressista nel XXI secolo,in un mondo che cambia velocemente e che è cambiato anche rispetto al 2007, quando il Pd è nato: basti pensare ai cambiamenti climatici che fanno vivere nella paura delle catastrofi, alle nuove tecnologie, alle nuove forme di comunicazione, al conflitto bellico all’interno dei confini europei e tanto altro.
Si ricostruisce sviluppando una cultura politica esplicitata negli obiettivi: per una società più giusta, contro le diseguaglianze, per una maggiore integrazione europea, per una democrazia paritaria. Bisognerebbe estendere la riflessione anche a livello europeo, dal momento che l’arretramento della forza delle formazioni di sinistra e l’avanzare delle destre è un fenomeno che riguarda altri Paesi dell’Europa. Dobbiamo chiederci perché la destra e il populismo vincono perfino nei Paesi dove ha sempre dominato la socialdemocrazia, come in Svezia. È evidente che l’elettorato è diventato più fluido rispetto alla relativa stabilità che ha accompagnato la seconda metà del Novecento. Albert Hirschmann aveva lanciato la triade Exit, Voice and Loyalty. Sul piano elettorale alla lealtà, allo spirito di appartenenza, si è andato sostituendo sempre più l’exit, che si manifesta o astenendosi o cambiando la propria scelta. Le prime analisi dei flussi elettorali parlano di 10 milioni di elettori che hanno scelto un partito diverso rispetto al 2018. Che fare ora?
È condivisibile il percorso proposto dal segretario Letta sulle diverse fasi. La fase delle analisi, della discussione aperta, del confronto fra iscritti, elettori, simpatizzanti, per me è quella più importante per definire la cultura politica che ci connota come partito della sinistra riformatrice. Questa fase dovrebbe concludersi con un Manifesto condiviso di principi e di linee programmatiche fondamentali,che è la condizione per potersi definire comunità e per recuperare una funzione nazionale di servizio.
Solo dopo può partire la corsa alla segreteria con candidate e candidati che siano ancorati a quei principi condivisi. Senza una nuova piattaforma ideale mi chiedo se non sia destinato a esaurirsi anche quel buon governo che finora ha caratterizzato alcune aree del Paese. Quell’unico puntino rosso su uno sfondo tutto bleu della Toscana è un monito che non si può minimamente trascurare.